La metamorfosi di un cesto

È un periodo difficile. Per tutti. Per alcuni, un po’ di più. Ad esempio, per gli artigiani. 

Non è facile lavorare per chi lavora in modo autonomo, realizzando manufatti di ottima qualità, sapendo che ancora per qualche tempo i canali dove mostrare e vendere i propri manufatti rimarranno bloccati (mercati dell’artigianato, fiere, sagre e in genere tutte le manifestazioni che prevedono mercati all’aperto).

È difficile sempre. In questo inizio, ormai inoltrato, di 2020, lo è di più.

D’altra parte l’artigiano, difficilmente rinuncia a tenere attive le mani nel suo laboratorio e a preparare una scorta. Tenersi occupati è un ottimo modo per superare le giornate di distanziamento / isolamento e occupare la mente. Una volta finito un prodotto, lo fotografa e lo pubblica in un post. La curiosità dei potenziali clienti è assicurata.

È questa la premessa indispensabile a un recente post di Nico Solimano https://www.facebook.com/solimano.nicola. Dedicato a un cesto. 

Osservo le foto. Non è un semplice cesto: è un adattamento un po’ speciale. È diventato un bellissimo cesto ‘portalavoro’. 

Istintivamente, penso, ‘devo averlo’. Poi, mi dico: già, ma dove lo metto? E qui il problema si fa serio! Anche volendo, non saprei dove. Devo andare cauta con l’acquisto di cesti. E’ vero che li uso, ma è anche vero che occupano spazio. Una busta di plastica si ripiega e ne occupa pochissimo. Ma, in ogni caso, un cesto è preferibile, sempre e da ogni punto di vista.

È vero che questo è speciale, sicuramente funzionale. Ed è anche vero che non avrei difficoltà a riempirlo con rocchetti, forbici, bottoni, ecc. L’angolo dove potrei infilare il cesto portalavoro è già occupato da una cesta dove conservo, in bell’ordine, i miei esperimenti di tintura e di stampa (è diventato mio durante la terza edizione di Erbacce e dintorni, a Bracciano dove Nico aveva un bellissimo stand). 

Gli spazi dove potrei collocare i mobiletti portalavoro sono già occupati. Da mobiletti portalavoro, ovviamente. Di tutt’altro genere: sono opera di artigiani del legno, probabilmente inglesi. Forse, risalgono all’Ottocento. Non sono un’esperta.

Fanno parte delle cose acquistate da mio padre nel negozio di antiquariato che si trovava sull’altro lato della strada, a pochi passi dal portone di casa. Poco lontano da una bottega del calzolaio, instancabile, sempre al lavoro da mattina a sera, preciso nelle consegne. 

Il calzolaio c’è ancora. È una di quelle poche cose che rimpiango della mia città natale, Viterbo. Dove abito adesso, A Navelli, un tempo, c’erano tanti calzolai. Sono rimaste le botteghe vuote, nel borgo medievale. Sulla porta, in alcuni casi, si riconoscono le sagome che facevano da insegna.  Ma in realtà, erano i tempi in cui l’insegna serviva poco. Ma servivano i calzolai. Chi mai avrebbe buttato un paio di scarpe? Nessuno, neanche chi ne possedeva più di un paio! Nelle vicinanze, ce n’era ancora uno, a Capestrano, molto anziano, fino a qualche tempo fa. Ora, il tempo dei calzolai è finito. Ci sarebbe da riflettere, e molto, su questa sparizione.

Lungo la strada dell’antiquario, a Viterbo, il negozio di antiquariato non c’è più, ormai da molti anni. L’antiquario ha dovuto rinunciare di fronte al nuovo che avanza. Per mio padre fu un brutto momento. Passava parecchio tempo a chiacchierare con lui. E ogni tanto acquistava piccole cose per la mamma. Alcune le ho recuperate e sono qui in casa. Tra queste, i mobiletti portalavoro.

Altri angoli disponibili in casa, non ce ne sono. Né potrei rinunciare al grande cesto di recupero che deve essere nato per il trasporto a dorso d’asino!

Mi rimarrà un po’ di rimpianto per questo piccolo capolavoro di artigianato dell’intreccio che sicuramente troverà posto in un angolo nella casa di un’appassionata di lavori di cucito.

TESTO E FOTO: Rosa Rossi

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