La mia avventura con i libri è iniziata molto, molto presto).
Per qualche strana alchimia ero attratta dai libri fin da bambina. E il rimprovero di mio padre che lamentava i miei maldestri tentativi di afferrare i suoi libri da una libreria alla mia altezza, mi ha accompagnato per tutta la vita. Non è riuscito, peraltro, a farmi desistere da un percorso di lettura che si è andato ampliando e diversificando con il tempo.
La libreria nello studio del nonno – antica, polverosa, scura, ricolma di libri di medicina e di un’ampia sezione letteraria (ivi compresi romanzi, novelle e racconti scritti e pubblicati dal nonno tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta) – ha segnato i miei anni di adolescente che si rintanava nel suo studio per affrontare i compiti di latino e greco, le materie sulle quali ho puntato fin dalla scuola media (unificata da lì a poco senza che realmente si fosse capita – e spiegata – la vera portata del cambiamento).
Perché mai una ragazzina, all’inizio degli anni Sessanta, si mette in testa con una caparbia fuori del comune di riuscire in quelle particolari discipline? La domanda è lecita.
Le risposte sono almeno tre.
La prima è un profondo senso di vergogna. Quinta elementare. Sono vicina alla cattedra. In un testo scrivo ‘dio’ con la minuscola. La maestra mi addita al ludibrio della classe intera. Non ho mai ‘digerito’ quel rimprovero. Non combaciava con la molteplicità di dèi con cui ero già entrata in contatto nelle pagine del sussidiario.
La seconda è una sfida. Prima media. Il primo compito di latino e un risultato pessimo. Il giudizio tranciante di una professoressa – di quelle che non hanno mai dubbi, a prescindere – che assolutamente non ricordo. Io, undicenne, ho deciso che non gliela avrei data vinta.
La terza è un fattore puramente casuale. Tra tutti i professori che ho incontrato nella carriera scolastica, i migliori – senza dubbio alcuno – sono stati quelli di materie classiche, per dottrina, serietà e metodo.
Al punto da ricordarne i nomi: Raimondo Pesaresi, durante una breve parentesi da studentessa ginnasiale nel liceo classico di Viterbo, e Emidio Panichi, in un liceo romano.
Sugli altri è sceso il pietoso velo dell’obblio.
Sono esperienze che segnano e, direttamente o indirettamente, determinano il corso delle cose.
Inutile ricordare i lunghi anni di apprendistato sul campo (ossia, in aula), contrassegnato non certo dalla necessità di formare un docente ma dalle macchinose, lunghissime procedure per entrare in ruolo (supplenze ‘accumulapunti’, corsi ‘accumulapunti’, un primo concorso ‘abilitante’, il secondo concorso ‘a cattedre’).
Sono lunghi anni di pratica in classi sempre diverse, con il bagaglio degli studi liceali e di quelli universitari, orientati inevitabilmente agli studi classici (università prestigiosa, senza dubbio, ma nel settore ‘filologia classica’ chi mai si è preoccupato di dover formare non filologi ma insegnanti? Soprattutto in anni difficili, in cui le mura rassicuranti di una biblioteca potevano schermare la visione del mondo esterno. E soprattutto in un mondo che, già da quegli anni, non ha più bisogno di molti filologi).
Il vero bagaglio sono i classici e i dubbi perenni che mi accompagnano da allora (cosa proporre, come studiare, perché quel passo e non l’altro, come far diventare un particolare passo un bagaglio vivo e presente per un giovane degli anni Settanta, Ottanta, Novanta e, poi, del nuovo secolo?).
Forte di questo bagaglio, mi sono attrezzata. Ho selezionato, scelto, proposto, discusso, accolto proposte, sollecitato il dibattito su temi provenienti direttamente dal mondo di Omero, dai viaggi di Erodoto, dal teatro di Dioniso, dall’assemblea ateniese, dalla guerra del Peloponneso, dalle scuole filosofiche, dalle biblioteche, da Roma repubblicana, imperiale, universale e cristiana.
Quando le scelte dei libri di testo – a volte decisamente prevedibili o, come dire, ‘patinate’ – non mi soddisfacevano, integravo con altri testi. Non per niente, erano ancora i tempi in cui si leggevano Mario Lodi e Bruno Ciari. Idealmente il libro di testi e letteratura, greca e latina che fosse, doveva essere sempre in fieri, doveva essere vivo, doveva presentare questioni attuali. Tucidide ma anche Ippocrate, per esempio. Platone, certo, ma perché non l’Aristotele che si occupa di piante e di animali? Cicerone, sicuramente, ma perché non il Catone del De re rustica? oppure Varrone e, perché no?, Plinio il Vecchio.
L’obiezione di fondo, potrebbe essere che i contenuti sono ampiamente e, in molti casi, definitivamente superati. Ed è vero, non c’è dubbio. Ma proprio questo induce a problematizzare i contenuti, a ragionare sulle differenze, a capire il cammino percorso dall’uomo in oltre duemila anni, e a riflettere sul significato e l’impatto delle conoscenze che l’uomo ha raggiunto successivamente e sulla portata di tale conoscenze sull’uomo stesso e sull’ambiente. Per riscoprire che, spesso, quei contenuti sono ancora attuali o, comunque, strumenti utili per capire il presente. Se così non fosse, lo studio del passato potrebbe essere liquidato.
E non è così. Anzi, lo studio del mondo antico è fondamentale. E proprio tramite quello studio, abbiamo oggi la possibilità di analizzare quanto e come gli ultimi tremila anni ci abbiano portati a una crescita preoccupante. Senza la prospettiva storica, senza le testimonianze degli antichi, il quadro sarebbe più vago. Invece abbiamo la possibilità del confronto.
Chiudere la pluridecennale parentesi ‘in classe’ non è stato facile. Non ha significato chiudere con l’attitudine a un approccio al mondo costruito a partire dai testi, senza pretese di trasmettere verità indiscutibili ma nella convinzione di presentare questioni sempre aperte, da rileggere e reinterpretare di giorno in giorno, di anno in anno, di decennio in decennio.
Perché le prospettive cambiano. Guai se non fosse così.
Anzi, ha significato ampliare la prospettiva e riscoprire interessi nati e prontamente sopiti negli anni di scuola da lezioni soporifere, pagine assegnate, libri inadeguati. Alla fine del liceo, da sola, non ho avuto la forza di orientare gli studi universitari sulle materie che realmente mi affascinavano. Provai a proporlo in casa. Altri tempi. Una facoltà scientifica? Perché mai?
Ero già abbastanza ribelle per gli standard dell’epoca per avere la forza di insistere.
Da brava scolara, ho scelto quello che ci si aspettava che scegliessi, accantonando per sempre il sogno solo vagheggiato di studiare botanica o agraria.
È così che nel decennio che si sta concludendo in modo così drammatico, di fronte al fatto incontrovertibile che i confini sono solo convenzioni che l’uomo definisce e ridefinisce e attorno alle quali si accanisce ma che non interessano i fenomeni naturali né, tantomeno i virus, ho continuato a leggere, a prendere appunti, a riflettere, a leggere ancora.
La spinta nasce dai miei interessi, ormai senza confini e, anzi, sostenuti dai lunghi anni di pratica quotidiana con i classici. Sempre con in mente i versi di un coro dell’Antigone di Sofocle:
“Molte potenze sono tremende, ma nessuna lo è più dell’uomo. È lui che oltre il mare canuto procede nella tempesta invernale attraverso i flutti che gli si frangono intorno. È lui che la dea suprema tra tutti gli dèi, Gaia, violenta anno per anno con gli aratri tirati dalla stirpe equina.
È lui che cattura con attorte reti gli uccelli dalla mente alata e le fiere selvagge e gli animali del mare.
È lui, l’uomo, capace di pensiero, che ha il potere sulle bestie dei campi e su quelle che vagano sui monti; è lui che aggioga il cavallo crinito e l’infaticabile toro.
È lui che la parola e il pensiero, simile al vento, ha imparato e l’impulso che porta alla legge e a fuggire gli strali tremendi dell’inabitabile gelo sotto l’etere aperto. Ovunque si apre la strada, in nulla s’arresta.
Così affronta il futuro. Da Ade solo non ha escogitato scampo, per quanti rimedi abbia inventato a inguaribili mali.
Oltre ogni speranza e attesa, conosce, fabbrica, inventa, a volte rivolgendosi al male, a volte al bene. Allorché si accorda alle leggi della sua terra, e alla giustizia giurata degli dèi, siede in alto nella città, ma se si macchia di azioni malvagie e sfrenata audacia, della città neppure fa parte. Mai gli sarò commensale, mai avrò animo uguale con chi così agisce”.
Sofocle, Antigone, vv. 332-375 Traduzione: Massimo Cacciari
Ogni volta che li rileggo, non riesco a non pensare che erano cantati nel teatro, luogo di formazione per eccellenza dei cittadini per alcuni decenni cruciali, e che rimanevano nella loro memoria.
Un monito sulla terribile grandezza dell’uomo, una grandezza ambigua che si dispiega in tutti gli ambiti della vita (la caccia, l’agricoltura, la navigazione, la medicina, la politica …), nel bene e nel male. Parole pronunciate nel 442 a.C. che – a distanza di duemila e quattrocento sessantadue anni – sono ancora terribilmente valide.
Ancora di più nella presente contingenza che ci vede affrontare, direttamente o indirettamente, un nemico tanto piccolo e tanto potente da mettere in ginocchio strutture politico economiche e sociali che, con la stessa superbia dell’uomo stigmatizzata da Sofocle, consideriamo inattaccabili.
Nota: con l’inizio della scuola, è iniziato anche il mio apprendistato con ferri da calza e uncinetto, grazie alla pazienza della nonna. Da allora, ancora oggi, ho sempre uno o più libri iniziati e, accanto, almeno un lavoro a maglia. Quando gli occhi si stancano, prendo in mano i ferri, e viceversa. Per questo motivo, anche se può sembrare strano, anche questo è un ‘racconto artigiano’.

Originariamente pubblicato su http://www.infodem.it/teatrino.asp?idn=5739 il 12 aprile 2020
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