In questi giorni sto rileggendo un libro fondamentale. Non è un libro recente ma merita una rilettura. In verità, anche più riletture. Parla di primavera, terra, acqua. Suscita tante riflessioni, difficili da organizzare. A ogni pagina trovo sottolineature e appunti. Ogni appunto merita un approfondimento. Soprattutto ha bisogno di sedimentare. Solo la sedimentazione permette di comprenderne fino in fondo la portata.
Mentre cerco di trovare, come si dice, il bandolo della matassa, il pensiero corre a un altro filo. In questo caso, non è propriamente un filo ma una corda. Quella a cui era legato il secchio per attingere acqua dal pozzo, nella casa della mia infanzia. Dal secchio, l’acqua veniva trasferita nella brocca e, con la brocca, arrivava in cucina. E mi sono ritrovata a pensare che nella mia vita le brocche sono almeno tre, diverse. E, per quanto possa sembrare incredibile, in qualche modo c’è un legame con il libro che sto rileggendo e sul quale sto riflettendo. Così, mi prendo un po’ di tempo per raccontare queste tre brocche. Il titolo del libro? Per ora lo lascio in sospeso.
La brocca di coccio
La cucina è molto ampia e molto scura, una sola finestra e due lampadari a una sola lampadina, fioca. La luce elettrica è una conquista recente. Dalla sala da pranzo ci si arriva per un corridoio molto stretto, quasi un cunicolo, ricavato nel sottoscala.
Annessa alla cucina c’è la dispensa. Per le derrate che hanno bisogno di stare al fresco, bisogna andare in cantina (la grotta che corre sotto la grande casa, da una parte all’altra. Chi mai avrà avuto il coraggio di percorrerla tutta? Sicuramente, è stata rifugio durante i bombardamenti). In cucina, credenze a muro, un grande camino, un tavolo appoggiato alla parete, completato da sedie impagliate, sulla parete di fondo, un lavello, un piano di lavoro, i fornelli. Pavimento di vecchio cotto da ‘innaffiare’ prima di spazzare per non sollevare la polvere.
Nel ripiano accanto al lavello, troneggia la brocca di coccio. Anzi, le brocche.
Sulla cucina regna, indisturbata, Corona, governante e cuoca della grande casa.
Corona è addetta alle colazioni, ai pranzi, alle cene di tutta la famiglia con il supporto dell’orto, della stalla, dal pollaio, dei campi, degli alberi da frutto. E con quello della padrona di casa che presiede alla scelta delle pietanze, integra con gli acquisti (pochi) fatti in città, con la raccolta delle erbe spontanee e con le ricette di dolci per le occasioni speciali. Su tutti, la torta di nocciole.
I ruoli si invertono, quando è tempo di marmellate. Su tutte, quella di mele cotogne. In questo periodo la padrona di casa diventa protagonista. Ma il supporto di Corona rimane indispensabile.
Non è tempo di acqua corrente. È tempo di rifornimento dal pozzo.
Un andirivieni tra la cucina e il pozzo. Un andirivieni che insegna a non sprecare.

Un andirivieni con la brocca fino al pozzo in fondo all’aia, una minuscola casetta con il tetto spiovente, la porticina che affaccia sull’interno, la carrucola ben salda al soffitto, il secchio per attingere l’acqua appeso sulla parete interna, a un grosso chiodo.
Corona, stacca il secchio, afferra saldamente la corda e giù fino a sentire il tonfo nell’acqua. Poi lo tira su fino a poggiarlo sulla base di pietra dell’apertura e riempie con attenzione la brocca.


E si riparte, con lo strofinaccio avvolto a ciambella sulla testa, la brocca in equilibrio, fino alla cucina. Mattina, sera, ogni volta che ce ne sia bisogno. Canticchiando, sempre (“Campagnola bella”, “Papaveri e papere”, “Ho un sassolino nella scarpa”). Come poteva conoscerle? Non l’ho mai saputo. Una cosa è certa, la televisione è entrata in quella casa molti anni dopo il suo approdo in Italia (nel 1954), con la disapprovazione pervicace e ostinata del capo famiglia.
Una brocca d’oro per Atena e per Odisseo
Atena si presenta nelle vesti di Mente, capo dei Tafi, nella reggia di Odisseo, dove i Proci la fanno da padroni. Ha il compito di innescare il meccanismo che farà tornare a casa Odisseo, dalla guerra e dai suoi successivi vagabondaggi mediterranei. Il suo bersaglio è Telemaco, figlio di Odisseo, che fa gli onori di casa all’ospite ma, per il resto, assiste imbelle allo scempio portato dai Proci nella sua casa.
Il primo atto ospitale è il lavacro delle mani. A questo scopo, un’ancella si avvicina con una brocca (πρόχους) d’oro, piena di acqua:
Venne un’ancella a versare lavacro da brocca / bella, d’oro, su un bacile d’argento / ché si lavasse; e avanti gli trasse una mensa pulita (Odissea, I, 136 -138, Trad. Rosa Calzecchi Onesti).
Gli stessi versi ricorrono identici nel libro VII (vv. 172 -174). Qui Alcinoo, re dei Feaci, accoglie Odisseo. L’incontro con Nausicaa è già alle spalle. Alcinoo si rassegna presto all’idea che Odisseo, approdato – naufrago ma pur sempre sovrano – sulle coste della sua terra non potrà essere lo sposo della figlia. Il ritorno a Itaca sta per concretizzarsi grazie alla nave che il re mette a disposizione dell’ospite. È una scena delle tante scene tipiche, ricorrenti dalle quali spesso emerge la cultura materiale.
In entrambi i casi si tratta di una brocca d’oro. In ambiente regale non poteva che essere così.
Ma c’erano anche brocche di terracotta, semplici – come quelle che troneggiano nella cucina che è stata il regno di Corona – o variamente decorate, con la stessa funzione: portare l’acqua. Recuperate nei siti archeologici, fanno bella mostra di sé nei ripiani dei Musei. Oppure tra le pagine dei libri di archeologia, uno tra tutti, ormai datatissimo, Giovanni Becatti, L’arte dell’età classica, Sansoni 1971 (I ed. 1965). Scorro le pagine del manuale, piene di appunti, di sottolineature, di rimandi. Non si perdono mai le abitudini!
La ‘conca’ abruzzese
Le brocche dei personaggi di Omero sono in bell’ordine nei musei, catalogate, analizzate, datate, descritte nei particolari in articoli e libri. Anche se non avessero il valore di reperto archeologico, non sarebbero più utilizzate per lo scopo per cui sono nate. Esattamente come le brocche utilizzate per attingere acqua nelle case fino a circa settanta anni fa, o poco meno. Anche queste ultime, sono diventate al massimo un oggetto da mettere in bella mostra in un angolo di casa, senza più alcun legame con la preziosa concretezza della situazione in cui venivano utilizzate.
Alcune di queste sono già entrate di diritto nei Musei, soprattutto in quelli piccoli, di paese, intitolati alle tradizioni popolari e alla civiltà contadina. O nei cosiddetti musei etnografici.
Oppure in piccole collezioni private. È il caso della brocca ereditata da Rosella, esposta in un ambiente rustico, ancora oggi utilizzato in parte come dispensa, in parte per i lavori di stagione (fare i pomodori ad agosto, la sfioratura dello zafferano a ottobre, ecc.) e in parte come collezione museale. O di quelle di Rita. In realtà, chiamarle brocche è una forzatura: sono conche. E non sono in coccio (né tanto meno in oro!) ma in rame. Sono le classiche conche abruzzesi, con le due anse e, a volte, il mestolo per attingere l’acqua dall’interno.



Materiali diversi, decorazioni diverse, forma sostanzialmente simile e la stessa funzione da tremila e più anni a questa parte per un oggetto che il progresso ha rapidamente reso obsoleto.
Non lo rimpiangiamo, certo. Non avrebbe alcun senso. Anzi, i più, se ne disfanno per fare spazio. Ma ci offre l’occasione per riflettere su un bene prezioso come l’acqua che il progresso (sotto forma di acqua corrente sempre a disposizione) ci ha abituato a considerare perenne. Ma che perenne non è. A meno che l’ambiente non torni al centro dell’attenzione di noi umani, decisamente spreconi e molto superficiali. Per capirlo non c’è che un modo: ripensare il passato e capire dove e come abbiamo perso l’attenzione per ciò che ci permette di vivere. A partire dalle piccole cose. È la condizione indispensabile per guardare al futuro.
Per le foto ringrazio le amiche Valentina Chiarini (la brocca sarda e quella francese), Valentina Tescari (brocca della Tuscia) che mi tengono aggiornate sulla mia città di origine, Viterbo, dai loro paesi; Rosella Torlone e Rita di Iorio di Navelli, dove abito da molti anni. Le brocche della mia infanzia sono custodite solo nella mia memoria. Nella realtà sono andate perdute o magare ne conserva qualcuna uno dei cugini. Quello che conta è come è cambiato il loro significato, rese obsolete dalla manopola del rubinetto che, rendendo così semplice l’accesso all’acqua, rende molto facile lo spreco e ci fa perdere di vista quanto sia preziosa.
Post-Scriptum:
- il nome Corona non è inventato ma, sicuramente, poco usato. È un nome femminile, ormai desueto, di ispirazione religiosa. Santa Corona è la protettrice di Canepina, un paese in provincia di Viterbo, di dove la Corona protagonista dei miei ricordi era originaria e dove esiste una chiesa intitolata alla Santa. Il paese – Canepina – deve il suo nome alla canapa, la principale coltivazione del territorio, prima che il suo utilizzo come fibra per il tessuto fosse soppiantato dalle fibre artificiali.
- il libro che sto rileggendo non è nessuno dei due citati nel testo. Seguirà, prossimamente!
Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 30 aprile 2020 in Infodem.it
con il titolo BASTA UNA BROCCA PER RIPENSARE IL PASSATO E RIFLETTERE SUL FUTURO
- Leggendo Zena Roncada, Dal terrazzo e piccole fughe, temposospeso 2025
- Leggendo Massimo Castoldi, L’Italia s’è desta. L’inno di Mameli: un canto di pace, Donzelli 2024
- Leggendo AA.VV., Lezioni sull’antifascismo, a c. di Piergiovanni Permoli, Laterza 1960
- Giona (e Giosuè), tra Vaccamorta, Francia e Caraibi: una nuova ‘opera-mondo’ (Alessandro Marenco, Giona, temposospeso 2025)
- Contro l’obsolescenza di (alcuni) libri (parte seconda)
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