Il castagneto di Valentina

Il ritorno alla terra d’origine è ormai quasi un rituale. Anche se nasce da questioni pratiche, è in realtà un ritorno al passato, per rivitalizzarne, nella memoria, paesaggi, colori e profumi.

Se le questioni pratiche non ci sono, si ‘creano’. Così, prendere un libro in prestito nella biblioteca di Soriano nel Cimino, ad aprile, è un ottimo pretesto per tornare, a giugno. È una ‘follia’ calcolata, parte integrante del richiamo della terra cimina che, a intervalli più o meno lunghi, esplode e costringe a partire.

Tra partenza e arrivo, la prospettiva cambia: dalle cime del Gran Sasso, alle spalle del cucuzzolo dove abitiamo, costeggiando il Terminillo, arriviamo in vista dei Monti Cimini che, in realtà, a stento si possono definire tali, quanto ad altezza. Sul piano ‘orografico’ il confronto è insensato. Sul piano dei sentimenti c’è, da una parte, la terra di adozione, dall’altra quella della memoria, alla quale si aggiungono, in modo più o meno inconscio altri fili che si richiamano e si ricongiungono a quella, integrandola e mantenendola viva. 

Così, consegnato il libro, ci mettiamo sulle tracce di antiche fotografie ingiallite (una storia ancora tutta da raccontare), dei percorsi ‘abituali’ di un tempo, tra faggete e castagneti, alla scoperta di una realtà nuova e in fieri, il castagneto di Valentina, una sorta di giardino segreto, tutto da scoprire.  

Giugno è il mese ideale, ‘parola di nonno’:

Ben lo sapevo, ma a fin di un viaggio di mezzo giugno dall’uno all’altro mare […], appena fuori dalla valle (del Tevere, ndr), quando verso il tramonto, mi si pararono all’improvviso davanti, dovetti, pur dopo tanto verde, continuo sì, ma timido e pallido, restar sorpreso e come intimidito alla muta offerta di tanta opulenza d’ammanto. Era di una morbida felpa di vellutino, qua e là, in quell’ora delicatamente fosforescente. Il trionfo di questo verde tocca il fastigio a giugno; ma dura vivo e schietto, da quando si afferma tenero nell’aprile come un pulviscolo e quindi come vaga peluria allo svegliarsi dei cedui di castagno, di quercia ed al rinchiomarsi dei secolari faggi” (Filippo Petroselli, Amore di terra cimina, 1939, in Opera omnia, III, 1972).

Così inseguiamo questo verde, tra San Martino al Cimino, in direzione Sant’Angelo (Cura di Vetralla); lo inseguiamo verso la Madonnina e il Monte Fogliano. 

Lo inseguiamo nella Riserva naturale del Lago di Vico; poi, tra Soriano nel Cimino e Bagnaia, lungo la Via Romana.

Lo inseguiamo tra pareti di verde che, a volte, divengono vere e proprie gallerie, intrecciando le fronde sul colmo della strada sottostante, facendo attenzione all’alternanza di castagni e faggi, con l’intrusione di noccioli e aceri.

Lo inseguiamo osservando il tripudio della fioritura dei castagni, le nocciole già in pieno sviluppo tra le foglie dei rari noccioli e cercando di riconoscere, qua e là, di quale specie sia l’acero che, da intruso, svetta ai margini di castagni e faggi. 

Infine, ci mettiamo sulle tracce del “castagneto di Valentina”, al quale si accede da un viottolo lungo la Strada Romana, che imbocchiamo provenendo da Soriano, in direzione Bagnaia. Con qualche incertezza nel percorso, raggiungiamo Valentina che ci aspetta all’entrata di questo appezzamento di bosco, con un’area destinata ai frutti di bosco. Valentina, giovane imprenditrice agricola, in tempi in cui l’agricoltura è divenuta un’industria e in pochi scelgono di sporcarsi le mani con la terra, ha aggiunto, recentemente, questo angolo di castagneto al suo ettaro di terra agricola, tra Bagnaia e Vitorchiano (ne abbiamo parlato in Una zolla di terra e un campo di calcio (4 e 7 marzo 2021), mettendo insieme la sua esperienza e la mia scrittura).

Giardino segreto o piccolo eden nascosto? È un terreno digradante, lungo una costa del rilievo, mai toccato da tempo, con vegetazione allo stato naturale, a tutti i livelli, dal basso verso l’alto delle chiome di castagni secolari, un grande acero all’ingresso, cespugli di rovi, biancospino e molto altro, un sentiero da recuperare, un fosso con una pozza fangosa. La SPA (sanitas per aquam et lutum!) prediletta delle due ospiti fisse, mamma cinghiale e figlia cinghiale, nell’appassionata descrizione di Valentina. Dal loro punto di vista, in realtà, Valentina è l’ospite. Ma un’ospite rispettosa, con cui sono entrate in sintonia, nel rispetto reciproco degli spazi. Sono diventate amiche, a modo loro. 

Valentina, da imprenditrice agricola, deve rendere questi spazi produttivi.

Ma intende farlo nel rispetto dell’ambiente. Luogo di passeggiate alla scoperta di un territorio intatto? Luogo per brevi soggiorni nella natura, come è stato all’origine dello scoutismo? Palestra per chi vuole dedicarsi al riconoscimento delle piante spontanee, in particolare di quelle che si riconoscono dal fiore ma difficilmente dalle sole foglie (ossia, quando sono buone da mangiare)? 

Come il raperonzolo (Campanula rapunculus) che ho immortalato al volo, senza riuscire a metterlo ben a fuoco, complice la luce del sole. Luogo dove tornare, in stagioni diverse e con abbigliamento adatto. Magari in autunno, al tempo dei porcini.

Mi piace immaginare accanto al folto del bosco o negli immediati dintorni, quasi intercapedine tra bosco e bosco, una radura dove si affacciano gli abitanti del bosco. Eccola, descritta, nel 1939, dal nonno letterato che, anche in questo caso, come spesso nei suoi scritti, passa ex abrupto, dalla descrizione alla riflessione, tanto profonda quanto sconsolata. E se, a volte, la descrizione risente il gusto del tempo in alcune scelte lessicali, la riflessione è, nel cambiamento, drammaticamente attuale:

Da valloni e fossi […] nascono vallette che, dopo breve strada, si aprono e chiudono in quiete radure che han come confine coi fianchi delle collinette, il cielo, una fratta, pochi arbusti o due o tre alberi; secrete radure così odoranti di finocchiella, mentuccia o più dell’umile serpillo; fratta ove chioccola serio il merlo, o carezza e punge le nuove foglie il canto dell’usignolo: alberi od arbusti, secondo stagione ed ora, tubanti di tortore o nenianti per foltezza di ebbre cicale.[…].

Il mondo comincia e finisce lì. Lì e così. Non è poco oggi che l’umanità va diventando sempre più inquieta, rumorosa, anelante scioccamente alla gran città, litigiosa e sempre meno umana …in questi curiosi tempi in cui l’uomo sdegna e deride il raccoglimento e non si vergogna di avere in un solo corpo, non una, ma più anime od ancor peggio frammenti di anime” (Filippo Petroselli, Amore di terra cimina, 1939, in Opera omnia, III, 1972).

E, sempre, sulle tracce del nonno letterato, approdiamo sulla piazza di Bagnaia. Ma questa è (= sarà) un’altra storia.

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