Homo edax, riportato di seguito, è il titolo del ventesimo dei ventidue capitoli di cui è composto uno scritto di Victor Hugo – L’Arcipelago della Manica (L’Archipel de la Manche, 1883) – che, nel progetto dell’autore, doveva essere inserito nelle edizioni successive alla prima (1866) de I lavoratori del mare, cosa che si verificò solo nelle edizioni novecentesche.

Si tratta di una sorta di saggio geografico dedicato all’arcipelago della Manica, con particolare riferimento all’Isola di Guernesey dove l’autore è stato relegato per anni in quanto oppositore del governo di Napoleone Terzo, imperatore dei Francesi dal 1852 al 1870.
Rileggere lo scritto, a distanza di quasi centocinquanta anni ha un significato che va ben oltre il tempo della scrittura e che lo rende, oggi, attualissimo se non nella forma, senza alcun dubbio nei contenuti.
Chi avrà la pazienza di leggerlo ne ricaverà:
a. il desiderio di andare alla scoperta della suddetta isola (se non dal vero almeno sulla carta o in rete);
b. la curiosità di ampliare la lettura al testo completo e, con ogni probabilità, al romanzo, I lavoratori del mare,
c. e magari, perché no, anche l’intenzione di riflettere sul significato profondo di quanto l’autore scrive, nella sua contemporaneità e nella realtà odierna.
In altre parole: come e perché l’autore descrive la caratteristica principale dell’isola – ossia, la continua trasformazione – e quale significato assume tale trasformazione perennemente in atto a distanza di tanti anni?
Prima di leggere il passo – breve ma denso – è bene considerare il titolo – Homo edax – in lingua latina. Propriamente, ‘uomo edace’ ossia ‘che mangia’ (edax / ‘edace’ è aggettivo derivato dal verbo edo, is, edere ‘mangiare’, decisamente desueto). Se consultiamo un dizionario latino/italiano è facile rendersi conto che può assumere anche il significato di ‘divorare’ (mangiare con voracità) e, in senso traslato, quello di ‘consumare’, ‘distruggere’. ‘logorare’.
È bene leggere il passo tenendo a mente le accezioni di edace e una domanda: “Perché l’autore usa come titolo del breve capitolo un sostantivo – uomo – e un aggettivo – edace = che mangia, consuma, distrugge – se l’argomento al centro del titolo è l’isola?
Ecco il passo:
Nel corso di un certo spazio di tempo la configurazione di un’isola muta, perché un’isola è una costruzione dell’Oceano, ed eterna è la materia, non gli aspetti che essa prende. Ogni cosa sulla terra è perfettamente lavorata dalla morte, anche le opere extraumane, anche il granito; e tutto si deforma, anche l’informe. Le creazioni del mare cadono in rovina come le altre. Il mare che le ha innalzate, le abbatte.
In millecinquecento anni, solo tra l’imboccatura dell’Elba e quella del Reno sette isole su ventitré sono state sommerse. Cercatele in fondo al mare. Nel secolo decimo terzo il mare creò lo Zuyderzèe, nel decimo quinto la baia di Bier-Bosch, sopprimendo ventidue villaggi; nel decimo sesto, inghiottendo Torum, improvviso il Golfo di Dollart. Cento anni orsono, dinanzi al Bourg-d’Ault, oggi tagliato a picco sulla scogliera normanna, si scorgeva ancora sotto le onde, il campanile dell’antico Bourg-d’Ault sommerso. A Ecrè-Hou talora si distinguono, durante la bassa marea – come dicono – gli alberi, ora subacquei, della foresta druidica inghiottita dal mare nell’ottavo secolo. Una volta Guernesey aderiva ad Herm, Herm a Serk, Serk a Jersey e Jersey alla Francia; tra la Francia ed Jersey un ragazzo poteva scavalcare lo stretto: vi si buttava attraverso una fascina quando passava il vescovo di Coutances perché non si bagnasse i piedi. Il mare costruisce e demolisce, e l’uomo aiuta il mare a non costruire ma a distruggere.
Di tutti i denti del tempo, quello che lavora di più è il piccone dell’uomo: l’uomo è un roditore; tutto ad opera sua si trasforma e si altera sia in meglio, sia in peggio. Qui sfigura e là trasfigura. La fenditura di Orlando non è tanto favolosa quanto sembra; il taglio dell’uomo è nella natura; la cicatrice del lavoro umano è visibile sull’opera divina, e sembra anzi che all’uomo sia affidato un certo lavoro di completamento. Egli uniforma la creazione all’umanità, e di tale sua funzione ha l’audacia e, si potrebbe dire, l’empietà, perché la collaborazione è talora offensiva. L’uomo, la cui vita ha breve scadenza ed è un perpetuo moribondo, intraprende un’opera che sa di infinito. A tutti i flussi e i riflussi della natura, all’elemento che vuol comunicare con l’elemento, ai fenomeni circostanti, al vasto movimento delle forze, l’uomo pone il suo assedio e pronuncia anche il suo “tu non andrai più oltre”. Ha la sua convenienza ed è necessario che l’universo l’accetti. D’altra parte, non ha un universo proprio? Vuol farne ciò che più gli piace, punto. Un universo è materia prima; e il mondo, opera di Dio, è il canovaccio dell’uomo. Tutto limita l’uomo, ma nulla lo arresta, e risponde alle limitazioni, scavalcandolo: l’impossibile è una frontiera che retrocede sempre.
Una formazione geologica che ha alla sua base il fango del diluvio e alla vetta la neve eterna e per l’uomo un muro come un altro: la trafora e passa oltre; taglia un istmo, scava un vulcano, lavora una scogliera, vuota un giacimento, riduce un promontorio in blocchi. Nei tempi passati si dava tanta pena per Serse; oggi se la dà per sé. Questa diminuzione di stoltezza si chiama il progresso. L’uomo lavora per la sua casa e la sua casa è la terra: sposta, muta, sopprime, abbatte, rade, mina, zappa, scava, fruga, spezza, polverizza, cancella questo, abolisce questo, abolisce quello, e ricostruisce con ciò che ha distrutto.
Nulla lo rende esitante, nessuna massa, nessun blocco, nessun impedimento, nessuna autorità della splendida materia, nessuna maestà della natura. Se i giganti della creazione sono alla sua portata, egli li prende d’assalto: questa parte di Dio che può essere manomessa lo tenta, ed egli corre all’attacco dell’immensità impugnando il martello. Il futuro vedrà forse l’uomo demolire le Alpi.
Globo, lascia fare alla formica.
Il bambino che spezza il giocattolo ha l’aria di cercarne l’anima, e l’uomo sembra cercare l’anima della terra. Tuttavia, non esageriamo la nostra potenza: qualsiasi cosa l’uomo faccia, le grandi linee della creazione permangono, perché la massa – nella sua complessità – non dipende affatto da lui. L’uomo può agire sul particolare, non sul complesso, ed è bene che sia così; ciò è provvidenziale. Le leggi passano sul nostro capo, mentre quanto noi facciamo non va oltre la superficie. L’uomo veste o sveste la terra, e un disboscamento è un vestito che viene tolto. Ma rallentare la rotazione del globo sul suo asse, accelerare la corsa del globo lungo la sua orbita, aggiungere o togliere una tesa alle settecentodiecimila leghe al giorno che compie la Terra intorno al Sole, modificare la precessione degli equinozi, sopprimere una goccia di pioggia, tutto questo non lo può mai. Quello ch’è in alto resta in alto: l’uomo può mutare il clima, non la stagione. Fate girare la Luna fuori dalla della sua orbita!
Alcuni sognatori, anche illustri, hanno vagheggiato di dare la primavera perpetua alla terra. Le stagioni estreme – estate e inverno – sono causate dall’eccesso di inclinazione dell’asse della terra sul piano di quel l’orbita della quale sopra abbiamo fatto cenno: per sopprimere queste stagioni basterebbe raddrizzare l’asse. Niente di più semplice: piantate al Polo un piolo che giunga fino al centro del globo, legate ad esso una catena, trovate fuori della terra un campo di tiraggio, abbiate dieci miliardi di attacchi di dieci miliardi di cavalli ciascuno, fateli tirare, l’asse si raddrizzerà; e voi avrete la primavera. È chiaro che non c’è da fare grandi cose. Cerchiamo in altro luogo l’eden. la primavera è buona, ma la libertà e la giustizia valgono molto di più: l’eden è morale, e non materiale. Esser liberi e giusti: questo dipende veramente da noi. La serenità è interiore; nel nostro intimo si trova l’eterna primavera.
Con ogni probabilità, leggerlo una sola volta non è sufficiente. È necessario leggerlo più volte, lentamente, con una matita a disposizione per sottolineare parole ed espressioni da riconsiderare a fine lettura al fine di individuare il nucleo essenziale di ciò che l’autore intende comunicare ai lettori, quelli di ieri e quelli di oggi.
A titolo puramente esemplificativo, nel testo sono sottolineati alcuni termini e passaggi, attorno ai quali si può soffermare l’attenzione del lettore per ragionare sul binomio natura/uomo o, meglio, azione della natura/azione dell’uomo.

A partire da questo binomio, tenendo conto che Victor Hugo ha scritto poco meno di centocinquanta anni fa dalla prima pubblicazione, l’uomo è intervenuto e interviene a modificare e sfruttare il pianeta terra in modo sempre più pervasivo e il passo in questione diviene un buon punto di partenza per riflettere sul progresso e sui suoi risvolti sul mondo attuale, sulla condizione della popolazione e, in particolare, sulle sue fasce più deboli, sull’accentramento del potere politico ed economico, sugli effetti accelerati del progresso e sulle sue conseguenza sull’umanità e sulla casa comune.
Ogni lettore saprà farne oggetto di riflessione.
Se poi il lettore avesse modo di raggiungere un pubblico più vasto (ad esempio, quello rappresentato da una classe, a scuola), potrebbe trovare in questa pagina un’occasione per diffondere consapevolezza in un mondo che, proprio per l’accelerazione del progresso e la scarsa attenzione ai risvolti negativi in nome della crescita economica che – inevitabilmente – si accentra nelle mani di pochi, sta perdendo la capacità di interpretarne i segnali preoccupanti sul singolo e sulle comunità.
Alcune edizioni italiane de I lavoratori del mare:
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Trad. M. Mazzini, Casa Editrice Bietti 1910
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Trad. Giacomo Di Belsito, A. Barion Editore 1932
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Trad. Giacomo Zanga, Biblioteca Moderna Mondadori 1954; Oscar Classici Mondadori, 2015;
Victor Hugo, I lavoratori del mare – Il Novantatré, Trad. Vittorio Orazi e Oete Blatto, Casini, 1976
Victor Hugo, I lavoratori del mare, Trad. Vittorio Orazi, Rusconi 2017, 2025





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