Questa è una storia di cappelli estivi e dei materiali con cui vengono tradizionalmente confezionati.
Per parlarne abbiamo raggiunto Silvia Ronconi nella bottega/laboratorio che condivide con Giovanni Drovandini, a Bolsena, dal nostro angolo nel cuore dell’Abruzzo montano, Navelli. La bottega è tutto un programma, già dall’insegna, opera di un artigiano locale.
Le mie curiosità sui cappelli sono inesauribili. Anche se, in realtà, non riesco a portarli, conservo gelosamente i cappelli (quelli della nonna e del nonno, ad esempio) che di regola vengono ‘cestinati’, conservandoli in apposite scatole. E, da quando ho conosciuto Silvia, alcuni anni fa, ogni occasione è buona per incontrarla e scoprire qualcosa di più.
Alle curiosità sui cappelli si sommano quelle sui materiali. Vista la stagione, il materiale in questione non può che essere la paglia (e suoi dintorni, ossia foglie, frutti, erbe palustri: insomma tutto ciò che si può intrecciare, filare, tessere).
Già quasi pronti per partire, ho infilato al volo alcuni cappelli di paglia che fanno parte della mia collezione in una capace sacca di tessuto, senza sapere esattamente perché. In realtà, spero di ricavarne qualche informazione da Silvia.
Una volta arrivati, la giornata è trascorsa prendendo appunti, fotografando una selezione dei cappelli di ‘paglia’ in esposizione, ragionando di cappelli, di cappelli estivi, di storia del costume, di globalizzazione, di materiali, di lavori e di lavorazioni.
Anche di Musei. Con Silvia abbiamo in programma di visitare insieme il Museo della paglia e dell’intreccio Domenico Michelacci a Signa. Un altro Museo che ci piacerebbe visitare l’Ecomuseo delle erbe palustri a Villanova di Bagnacavallo (Ravenna).
Mentre parliamo di paglia (ma anche di foglie e di sacchi di juta riciclati!), mi torna in mente un piccolo Museo in cui ci siamo imbattuti alcuni anni fa in Provenza, a Cadenet, propriamente dedicato all’intreccio (di cesti e di tutto quello che si può ottenere intrecciando salice e altro ancora) che espone una magnifica collezione di cappelli.
Mi torna anche in mente il tempo delle stoppie (i residui delle graminacee sui campi dopo la mietitura) delle estati nella campagna dei nonni. Residui della paglia che, in quella campagna, andava a formare il tipico pagliaio a cono.

Poi è arrivato il momento di tirare fuori dalla sacca i miei cappelli di paglia. Ho acquistato quello da donna, di foggia decisamente vintage, guarnito com’è da un nastro e da un mazzo di fiorellini secchi, su una bancarella, non ricordo dove, sicuramente una trentina di anni fa. Per poche lire (letteralmente, ancora non si parlava di euro).
Silvia lo osserva. Si tratta di vera treccina, la lavorazione tipica della paglia nella zona di Firenze, famosa per i cappelli, per il Museo, per il legame con il mondo britannico nel campo del costume e dell’arte.
Un piccolo tesoro, che non pensavo fosse un tesoro, pur conservandolo gelosamente!
Poi osserva il cappello da uomo. Lo prende in mano. ‘È un panama’. Lo rigira: ‘È un Montecristi!’. Lì per lì, non capisco niente. Ma Silvia mi svela l’arcano: ‘panama’ è il cappello realizzato utilizzando le fibre di ricavate da una palma – Carludovica palmata – caratteristica di Ecuador, Bolivia, Perù. Montecristi è una città dell’Ecuador. Panama è il paese dell’America centrale che ha fatto da tramite tra i luoghi di provenienza e il resto del mondo, dove il ‘panama’ è divenuto un’icona della moda maschile fino a quando nel 2012 l’UNESCO lo ha inserito nel novero de I patrimoni orali e immateriali dell’umanità.
Con mia sorpresa, lo osserva ancora da più vicino. Dal bordo interno Silvia estrae con delicatezza una fascetta di sughero: “Guarda, serve per stringerlo! Non l’avevo mai vista. Oggi si fanno ancora, anzi sono vendute insieme al cappello, ma sono di cartone!”.
Insomma, quando ci rimettiamo in cammino per tornare al nostro paese medievale, abbiamo imparato molto, abbiamo scattato una quantità di foto e abbiamo recuperato un pezzettino di storia familiare in più da immagazzinare nella memoria. Il panama, infatti, era del babbo. È rovinato quel tanto che basta per capire che è stato molto usato ed è pronto per essere esposto in bella vista, insieme al cappello vintage da giovinetta ottocentesca, comprato, chissà quando e perché, su una bancarella!
TESTO E FOTO: Rosa Rossi
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