Ci sono amicizie che sono a distanza a prescindere dalla pandemia.
Brigitte è una di queste amicizie. L’unico periodo di frequentazione quasi quotidiana risale ormai a venticinque anni fa: i figli di entrambe ancora piccoli, l’incontro fortuito, la condivisione di incontri settimanali con il gruppo delle sue amiche di sempre nel quale mi ha inserito, l’esperienza di vita in un mondo estraneo con il quale entrare in contatto per capire (non senza difficoltà), da apprezzare per molti aspetti, da smitizzare per molti altri, l’apprendimento sul campo della lingua.

[Avevo iniziato a studiare il portoghese, in previsione di un soggiorno piuttosto lungo, a Roma, con una signora gentilissima il cui marito era responsabile della biblioteca dell’Ambasciata del Brasile (una di quelle circostanze in cui ho avuto modo di gustarmi Roma da una prospettiva privilegiata, entrando, una volta a settimana, nella sede dell’Ambasciata a Palazzo Pamphilj, accanto a Sant’Agnese in Agone). La modalità di studio che avevamo concordemente adottato era, a dir poco, inconsueta: partire dal testo di alcune canzoni. Ma ha funzionato: dal primo testo – Morena di Angola, scritta da Chico Buarque e cantata da Clara Nunes -, siamo passate ad altri, fino a leggere testi più impegnativi, alternando lettura e conversazione].
Terminato quel periodo, io e Brigitte siamo rimaste in contatto. Inizialmente, per posta. Erano ancora tempi in cui si ricorreva alla posta. Poi, gradualmente, per telefono. Sempre, rigorosamente, in portoghese (ma abbiamo in programma di ‘scambiare’ l’uso delle lingue).
Nei primi anni del nuovo secolo, il cambiamento è stato sostanziale: Brigitte con la famiglia è tornata alla terra delle lontane origini, In Germania. Abbiamo avuto la possibilità, episodica, di incontrarci. Ma soprattutto le comunicazioni – lunghe telefonate, messaggi, scambi di fotografie – sono diventate sempre più facili. Così ci sentiamo, ci scambiano idee, consolidiamo punti di vista e pareri, parliamo di questioni politiche (con notevoli perplessità generali), ambientali, ricordiamo il periodo brasiliano, le persone, le occasioni di stare in compagnia, le avventure dei figli piccoli e, con il passare degli anni, di nipoti.
Il filo conduttore della nostra amicizia è senz’altro legato alla natura: regolarmente ci scambiamo foto di paesaggi, di particolari, di foglie.

Così, in questo autunno di ripresa della pandemia, ci confortiamo a vicenda con le foto del mio giardino e con quelle del ‘suo’ ginkgo biloba, quello piccolo sul terrazzo del paese dove abita e quello grande sulla piazza del castello proprio di fronte alla sua casa.

Mi piace pensare che il tappeto di foglie gialle del grande ginkgo sia il segnale per un ritorno delle foglie, a tempo debito, in una primavera più tranquilla. E che il tappeto giallo pieno di quei piccoli ventagli, tutti simili ma tutti diversi, sia un segnale positivo che viene da un albero considerato un relitto fossile, recuperato nel suo originario habitat, in Oriente, e diffuso in giro per il mondo a testimoniare la forza della natura.

Stefano Mancuso ricorda gli esemplari di ginkgo sopravvissuti alla bomba atomica nel suo L’incredibile viaggio delle piante (Laterza 2018) che godono In Giappone di un rispetto eccezionale, quasi fossero persone:
“L’equivoco non durò a lungo: <<Non sono uomini, ma alberi esposti alla bomba atomica …>>… li ricordo benissimo: un ginkgo (Ginkgo biloba), un pino nero giapponese (Pinus thunbergii) e un muku (Aphananthe aspera), tre alberi molto comuni in qualunque giardino classico giapponese. Il ginkgo era vistosamente piegato in direzione del centro città, il pino nero aveva una considerevole cicatrice sul fusto, ma tutto sommato stavano benissimo. Alberi normali all’apparenza, se non fosse stato per l’evidente sentimento di rispetto e, direi, di affetto che suscitavano nelle persone che erano lì ad incontrarli” (p. 28).

TESTO: Rosa Rossi FOTO: Brigitte Fisher Sille
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