Il mese degli esperimenti con gli scarti di crocus sativus è stato particolarmente lungo. La stagione, iniziata in ritardo – i fiori sembravano non volessero saperne di fiorire! –, non finiva più. Ancora a fine novembre si andava a raccogliere fiori.
E il laboratorio di tintura è proseguito ininterrotto: gli scarti (proprio tutti: petali, antere, foglioline e qualche filo di zafferano, sfuggito al lavoro di sfioratura), a mollo, la pentola sul fuoco, la filtratura del bagno di colore, senza tregua. Agnese a sovrintendere ai lavori e a sostenerne il peso più gravoso, Massimiliano a verificare i bagni nei momenti liberi dalle attività del Consorzio o della Cooperativa, Gianfranco sempre pronto ad aiutare, all’occorrenza. E’ stato un lavoro aggiuntivo rispetto a quelli consueti, ossia la raccolta di prima mattina e la ‘sfioratura’, durante la giornata, nelle case.
E la materia prima da tingere, ossia la lana? Direttamente dai pascoli di zona, tra collina e montagna, tra Barisciano e Campo Imperatore. Sono i pascoli dove arrivano le greggi che ‘indossano’ la lana AquiLANA prima di essere tosate. Una volta tosata, lavata, filata, arriva in matasse nella bottega di Santo Stefano di Sessanio, sia nel colore originale sia in una variopinta gamma di tinture vegetali.
Il risultato: tante matasse di colore verde.

Sembra facile. Il problema è il verde: è incredibile quante possano essere le sfumature di verde! Da cosa dipende? I fattori sono tanti: il rapporto tra petali / antere / foglioline in tre kg di scarti (ma siamo arrivati anche a quantitativi superiori!), la temperatura dell’acqua, il tempo esatto di permanenza nell’acqua della lana. Le variabili sono infinite, anche tenendo conto della temperatura esterna, delle condizioni atmosferiche. Delle condizioni in cui abbiamo fatto asciugare la lana, all’ombra e all’aperto.
È stata una vera avventura nell’avventura. Nella realtà è solo uno dei tanti lavori stagionali della piana di Navelli dove la tradizione della coltivazione dello zafferano si tramanda da secoli, tra alti e bassi influenzati dal costume, dalla gastronomia, da gusto di quanti lo zafferano se lo sono potuti permettere nei secoli passati e dalla riscoperta attuale, con il marchio DOP.
Nella pratica, una vera avventura: da metà ottobre tutti coloro cha hanno un appezzamento dove mettere a dimora i bulbi del crocus sativus, si alza all’alba e verifica la situazione, portando un cestino con sé. Quando la produzione aumenta, aumentano i cestini e, se possibile, le mani a raccogliere. È un lavoro di squadra, al quale partecipano interi gruppi familiari.
La sfioratura, durante la giornata, vede raccogliersi le persone intorno al tavolo di una cucina. Le mani al lavoro, delicatamente, con movimenti precisi e veloci, mentre si intrecciano storie paesane, tra riflessioni, ricordi, risate ma anche tristezza. In tavola, appare sempre un piatto da portata con un torta casalinga.
Nell’anno appena trascorso, intorno al tavolo le persone sono sempre state poche, le chiacchiere in tono minore, le mascherine la regola generale. Quando i fiori erano troppi, i cestini sono stati recapitati nelle case delle signore più anziane, sempre disponibili ma giustamente al sicuro da eventuali contatti pericolosi. Da queste parti, gli anziani sono tanti. Il rispetto per loro, una regola.
Una volta lasciata alle spalle la stagione, le matasse asciutte, divise nei vari bagni di colore, in altrettante sfumature di verde, consegnate a Valeria o alla sede della cooperativa, recupero un campione di ogni bagno per realizzare qualche semplice lavorazione, una sorta di promemoria per l’anno prossimo.
Tra tutte le matasse che abbiamo tinto, ho infilato anche un avanzo di lana esotica, tanto ‘per vedere l’effetto che fa’. In realtà non è tutta lana (ricordo che include una piccola percentuale di fibra di bamboo) e non è neppure lana locale: è il residuo di un piccolo quantitativo, acquistato anni fa al Woolfest https://www.woolfest.co.uk (con un sottotitolo molto efficace The Original British Festival of Wool), a Cockermouth in Cumbria (UK).
Da quello che ricordo, il filato proveniva dalle isole Falkland /Malvinas. Mi incuriosì, così come per curiosità avevo voluto visitare un Festival molto britannico, nel cuore di una contea molto verde, con tanta erba, tante pecore, tante colline, tanti laghi, e fiumane di signore inglesi che arrivano in pullman stracolmi da tutti i luoghi, lontani e vicini, per acquistare lane di tutti i tipi e assistere a una sfilata di pecore da lana, di tutte le varietà, di tutte le dimensioni e di tutti i colori (a distanza di anni, me rendo conto di aver osservato da vicino uno spaccato del mondo che ha voluto uscire dall’Europa).

Insomma, non potevo tornare senza una lana esotica quel tanto che basta, sapendo che anche la lana può essere oggetto di scontri politici e, in qualche caso, di guerre. Del resto, per rimanere in zona, la Baronia di Carapelle, di barone in barone, arrivò a uno dei rami della famiglia Piccolomini. Costanza Piccolomini, indebitatasi per la costruzione di Sant’Andrea della Valle a Roma, la vendette (1579) al granduca Francesco I de’ Medici sicuramente interessato, tra l’altro, alla lana locale – lana ‘carfagna’ – per le attività di filatura e tessitura tipiche della Toscana.

Insomma, il primo quantitativo che decido di lavorare è proprio questo residuo di lana esotica, e mentre lavoro, i pensieri corrono alla storia che ho raccontato qui sopra e a tante altre storie, variamente connesse a questa (il lavoro a maglia è un’occasione preziosa per immergersi nei pensieri, per verificare le condizioni della propria memoria, per ricomporre notizie e ricordi, per appuntarli mentalmente e andare a verificare, rigorosamente alla fine del ferro di ritorno, per non sbagliare! E, naturalmente, senza mai perdere di vista le maglie per non farle cadere dal ferro).
Una matassa verde e un gomitolino del colore originale, sono sufficienti appena per una sciarpa, di dimensioni ridotte. Difficilmente abbinabile ad altro che non sia il maglione lavorato con lo stesso filato. Ed è così che lo immortalo, insieme al maglione, sul vecchio manichino da sarta, ricordo della mia seconda mamma, di tutti gli abiti che ha realizzato, lavorando indefessamente per tutta la vita e di quando, ormai cinquanta anni fa, l’aiutavo a mettere i ‘punti lenti’, sui tessuti pronti per l’imbastitura.
TESTO E FOTO: Rosa Rossi



