Calzini o calzerotti. Più o meno sinonimi. Indispensabili. Appaiati ma con una forte tendenza a spaiarsi, soprattutto se in tinta unita. Più facilmente ricombinabili se di colori accessi e con disegni diversi. Vengono in mente immagini quotidiane: la difficoltà di ri-combinarli quando tiriamo fuori il bucato dalla lavatrice. La busta dove riponiamo gli esemplari spaiati prima di decidere di disfarsene. Peraltro, sono immagini abituali ma ‘recenti’: la lavatrice, come gli altri elettrodomestici, è cominciata a entrare nelle case solo alla metà del secolo scorso. In quei decenni anche l’attività di lavare i panni, come tante altre attività proprie dell’ambito domestico, si è trasformata in modo radicale.
Sembra banale, ma riflettere alla tempistica di attività che eseguiamo rapidamente, in modo pressoché automatico, è un modo per (ri)considerare la società e l’impatto delle nostre attività sull’ambiente. Nella quotidianità, infatti, sono azioni che facciamo senza pensarci.
A meno che non capiti di trovarsi davanti a un’installazione artistica a base di calzini rattoppati, frutto di un lavoro paziente, dai tempi lunghi, recuperato da consuetudini desuete.
Si tratta di un grande pannello su una parete della Wellcome Collection (183 Euston Rd, Londra), nell’ambito della mostra On Happiness. Tranquility and Joy, attualmente in corso e visitabile fino al 27 febbraio 2022.

È quello che mi è capitato solo alcuni giorni fa nel corso della prima uscita dopo ormai oltre un anno e mezzo di distanziamento obbligato, che impediva o comunque sconsigliava spostamenti.
Piano piano, si riprendono le ‘vecchie’ consuetudini londinesi con i nipotini: sfruttare, per quanto possibile, le possibilità offerte da una città come Londra nel periodo delle vacanze scolastiche oltre il quartiere con la sua biblioteca, i suoi parchi e le zone attrezzate per i giochi. Le uscite si programmano con attenzione: la prenotazione (i musei sono aperti ma, anche quelli a ingresso gratuito come la Wellcome Collection (una camminata da Saint Pancras), richiedono la prenotazione per regolamentare il flusso di persone negli ambienti espositivi), l’itinerario e i tempi per lo spostamento, l’equipaggiamento (acqua, frutta, qualcosa per ripararsi … quest’anno si prospetta un agosto decisamente piovoso, anche al di fuori degli standard londinesi).
All’entrata, ci spiegano cosa è visitabile, le mostre temporanee, quelle permanenti (Being Human, Medecine Man), la biblioteca e la sala di lettura all’ultimo piano. È uno di quei luoghi dove si può entrare alle dieci di mattina, uscendo alle diciassette, dopo aver trascorso il tempo senza neppure rendersene conto, lontani dalla confusione dell’esterno, e, complici le mostre in atto, uno sguardo diverso su tante cose, compresi i calzini.
L’installazione consiste in un grande pannello disposto su una delle pareti della seconda sala ed è frutto del lavoro artistico di Celia Pym (celiapym.com), che ha posto al centro del suo interesse i capi danneggiati, quelli stessi che oggi – solitamente – vengono scartati e gettati senza troppi rimpianti. Come i calzini. La sua doppia formazione – nel campo infermieristico e in quello del design dei tessuti – si coniuga nel lavoro artistico: partendo da indumenti scartati e usurati li sottopone a un paziente lavoro di rammendo. Gli strumenti della sua arte, oltre a indumenti di recupero, sono filo, ago e forbici.

Esattamente gli strumenti di lavoro casalingo consueti ancora settanta/ottanta anni fa, quando la lavatrice stava cominciando a entrare nelle case, quando i calzini (ma non solo quelli) si rattoppavano attentamente, perché erano ancora i tempi in cui non si buttava niente.
Ferma di fronte al pannello, ripercorro rapidamente alcune letture recenti dedicate alla tessitura, casuali, ma non troppo: i passi dell’Iliade e dell’Odissea in cui le donne – non solo Penelope! – sono al telaio (e come contraltare alla visione edulcorata del mondo femminile che emerge dai poemi, il recente romanzo di Pat Barker, Il silenzio delle ragazze, Einaudi), i capitoli iniziali di La trama del mondo. I tessuti che hanno fatto la storia (UTET 2019) in cui l’autrice, Kassia St Clair ha ricostruito la storia dei filati e di tessuti nel tempo e nel mondo, fino alle recenti sperimentazioni per utilizzare la tela del ragno.
Nel saggio di Kassia St Clair ho trovato un’indicazione bibliografica che mi ha incuriosito, al punto da tentarne la lettura in inglese (non esiste a oggi traduzione italiana, colpevolmente, direi). Si tratta di Women’s Work. The First 20,000 Years. Women, Cloth, and Society in Early Times (1996) di Elizabeth Wailand Barber, archeologa che nel corso della sua attività ha indagato in modo particolare i resti dei tessuti a partire dalla preistoria, ridefinendo la storia di un settore solitamente trascurato e ricostruendo, per questa via, una storia al femminile.
Il tempo di sostare di fronte al pannello, anche tornando sui miei passi per riconsiderarlo, è stato sufficiente per riportarmi alla memoria questa carrellata di letture e per fissare nella mente l’idea dell’importanza del rammendo, del lavoro silenzioso, tranquillo, lento che si fa (faceva) con ago, filo (anzi tanti fili diversi e colorati) e per comprendere il senso di un’opera d’arte che abbina calzini consunti rammendati ad hoc all’idea di tranquillità e di lentezza. Tutte idee alle quali, a mio parere, si aggiunge una considerazione fondamentale sulla necessità di riesaminare l’idea di recupero, contrapposta a quella – sempre più pervasiva sull’ambiente – dell’usa e getta.
Proseguendo nella visita, mentre siamo nella Sala di lettura, chiedo a mia figlia: ti ricordi la busta dove mettevamo i calzini scompagnati dei bambini?
Ogni tanto, quando se ne accumulava un certo quantitativo, li passavamo in rassegna per abbinarli. Oggi quei bambini sono abbastanza cresciuti da sistemare da soli i calzini nei rispettivi cassetti. Chissà forse quella busta c’è ancora, da qualche parte. E settanta / ottanta anni fa, anche quella busta non sarebbe esistita. Al suo posto ci sarebbe stato un cesto (esattamente come ai tempi di Penelope e delle altre).


POST SCRIPTUM
È molto raro avere un riscontro su quello che si scrive, oltre a qualche Like che non sempre corrisponde alla lettura dell’intero testo. È la malattia attuale: passare rapidamente da una cosa all’altra senza realmente rifletterci su.
Naturalmente, ci sono le eccezioni. Poche ma ci sono. Con quelle poche si instaura un rapporto che va oltre la fugace scorsa in un post. A volte diventano occasione di riflessioni ulteriori.
È il caso di un messaggio ricevuto da un’amica dopo qualche giorno dalla pubblicazione di questo articolo – Un capo logoro e un ago: l’arte secondo Celia Pym – ne il blog dei blog di Informazione e democrazia di Beppe Lopez.
Ecco il messaggio:
“Sai, è un po’ la mia storia e il cambiamento che ho preteso di fare. Ho capito che serve meno … Anzi no, scusa. Serve quello che serve. Sì, così è più chiaro.
Ecco, l’alba è il momento giusto per leggere. Un pensiero un po’ polemico. Ma ci pensi quanto tempo abbiamo in più confronto alle nostre bisnonne? Ma alla fine che ci facciamo con tutto questo tempo? È vero, I calzini non si spaiavano anche perché erano pochi. Bulimia di tempo e “calzini”. Sto facendo sopravvivere le piante fino a quando non torna la pioggia. Quasi si sentono ansimare. Le previsioni sono “dopo Ferragosto autunno di botto! Fino a 12/15 gradi giù e nubifragi” Primavera anticipata. Poi gelate. Poi caldo torrido e siccità. Poi crollo delle temperature. Vuoi vedere che il meteo ci imita? Che si è messo a correre pure lui? Che non si mette più a rammendare calzini? Che ci mette chiusi … in un sacco, come si faceva con i calzini da rammendare che oggi non si rammendano più? Che ci butta via quando non riusciamo più a funzionare perché “ne ha così tanti di calzini”?”
Capisco quello che intende. Il ‘progresso’ ci ha fatto recuperare tanto tempo. Non lavoriamo i calzerotti a maglia, non rammendiamo calzini. Per la verità ormai non rammendiamo niente. Molti non sanno neppure attaccare un bottone. Non tutti certo. E non dovunque (ma i luoghi dove ancora succede non li consideriamo un modello, non contano e non ci interessano).
Ma nel mondo che pretende di contare, sicuramente il comportamento abituale è divenuto l’usa e getta. Ma come occupiamo tutto il tempo recuperato? in cose di poco conto. Il cellulare tra le mani. I post, i video, le pubblicità. Se nel post c’è il link a un articolo, sono pochi quelli che cliccano per aprirlo.
Bulimia di tempo e calzini. Un’immagine insolita ed efficace. Come a dire: “il troppo stroppia”.
Troppo tempo e non sapere cosa farne se non attività che si rivelano dannose per l’ambiente (se non per noi direttamente, sicuramente per le prossime generazioni).
Tanto di tutto a disposizione con la tendenza a buttare al primo accenno di logorio.
Cosa c’entra il clima? C’entra, c’entra! Purtroppo. Il tempo che spendiamo in attività superficiali. La tendenza all’usare e a gettare senza riflettere. Sono atteggiamenti entrambi nefasti per l’ambiente e, dunque, per il clima. L’amica che mi ha scritto il messaggio ha scelto di vivere di agricoltura. Da questa prospettiva, il nesso bulimia/calzini/clima diviene immediatamente chiaro. Dedicato a chi ha voglia di riflettere su questo trinomio.
Pingback: Rammendare, rattoppare, decelerare | Libri Sottobraccio