Uno sguardo alla ‘credenza’ dei ricordi

Mentre sono assorta nella lettura di un libro, mi capita ogni tanto, magari per riflettere a qualcosa che ho appena letto, di guardare in direzione della ‘credenza’, ossia del mobile che custodisce bicchieri, piatti e altri oggetti di porcellana. Quelli che, un tempo, erano considerati parte del servizio buono, da utilizzare nelle occasioni speciali.

Qualche giorno fa, mi sono alzata, ho aperto l’anta superiore, dove, tra le altre cose, ci sono tutti i pezzi di un servizio da tè che era della nonna materna. In quarantacinque anni di matrimonio non l’ho mai usato. È completo di tutto: tazzine e relativi piattini, teiera, lattiera e zuccheriera.

Ho scattato al volo alcune foto e le ho pubblicate sul profilo Instagram (racconti_artigiani), con un breve commento: “reperti del passato. Ricordo della nonna. Impossibile da usare, valore affettivo incommensurabile”.

Un’amica commenta con una domanda: “Impossibile da usare per paura di fare danni?” Lì per lì, cerco di pensare una risposta. Me ne vengono due, tre, quattro … Prendo tempo. Potrebbero essercene altre ancora. 

Ricomincio dalla ‘credenza’, uno di quei mobili che oggi sono passati di moda. Nella parte inferiore, chiusa, ci sono i piatti, anche questi mai usati, o forse, una o due volte, In quella superiore, a vetri, il servizio da tè, un altro servizio tè di porcellana comprato, ai tempi delle lire, per una cifra corrispondente a 15 euro, in un outlet Richard Ginori, nella periferia romana, uno di quei negozi dove finisce il residuo di ciò che va fuori produzione. Probabilmente mancava qualche pezzo. Solo così si giustifica il prezzo. Anche questo di nessun uso pratico. Per l’uso di tutti i giorni, sono molto più pratici i bicchieri con il manico, anch’essi di porcellana, ma di porcellana spessa. Devono fare una caduta rovinosa per rompersi. Al massimo si spezza il manico. A quel punto rimangono in bella vista sulla mensola della cucina, per il disegno e occasionalmente, per qualche mazzolino di fiori di campo, sottratti in giardino alle api e ai bombi. Perché l’ho comprato? Solo perché è ‘illustrato’ con erbe di campo, diverse, tazzina per tazzina e complete del nome scientifico. Un erbario dipinto su porcellana. 

Il servizio della nonna è storico. È porcellana bavarese. L’azienda – Seltmann Weiden – è stata fondata nel 1910, con sede a Weiden, a qualche decina di chilometri dal confine con l’attuale Repubblica Ceca, ed è tuttora attiva. Proviene dalla casa dei nonni materni. Con ogni probabilità era uno dei regali di nozze. È un ricordo prezioso. Questo è il primo motivo per tenerla ‘sotto vetro’.

Se la metto a confronto, idealmente, con le fotografie d’epoca, la prima che mi viene in mente è quella della giovane ragazza (ma sarebbe più appropriato ‘signorina’) in abito chiaro, a mezzo polpaccio, rifinito di ricami e merletti, che la nonna deve avere donato al nonno, di quasi tredici anni più adulto, conosciuto a Vicenza, quando era ancora tenente medico, poco prima del congedo definitivo (nella primavera del 1919). Un anno più tardi erano sposati. Il servizio da tè entrò in casa e venne posto al sicuro nella credenza. La Belle Époque era finita, l’Art Deco sta per iniziare. Questo è il secondo motivo per conservarlo, tenendolo al riparo da cadute.

Alla nonna doveva piacere molto. Lo ricavo dalla tovaglietta da tè completamente ricamata da mani esperte che riproduce il disegno delicatissimo e coloratissimo, in cui ricorrono pappagalli e fiori, entro greche di pieni e vuoti, variamente combinati.

So chi lo ha fatto dai racconti della nonna: aveva dato il modello (una tazzina probabilmente) alle suore che gestivano la casa di cura di cui il nonno era direttore. Un lavoro prezioso. Al punto che non so dire se è più prezioso il ricamo o il servizio in porcellana.

Quando la tovaglietta mi è tornata alla mente, l’ho cercata senza riuscire a focalizzare dove potesse essere finita. Mi ci sono messa d’impegno, con l’aiuto sempre prezioso di Rita. Così ho fotografato anche la tovaglietta.

Per usare il servizio e la tovaglietta servirebbe un ambiente adeguato, con un tavolino da tè degno dei entrambi, la pazienza di preparare pasticcini per accompagnare tè, tazzine, e relativa tovaglietta. Ma la vita attuale non si presta più a queste attenzioni. 

Soprattutto se si decide di abitare in un borgo arroccato su un colle dell’Appennino abruzzese, in una casa fatta a scale, in cui l’unico tavolo – molto comodo e allungabile – si trova nello spazio cucina, con camino e annessa grotta / dispensa. Come dire, sono tutte cose che fanno a pugni, tra loro.

La camera da pranzo della nonna era perfettamente in linea, con il servizio e con la tovaglietta.

E, nonostante questo, non ricordo di aver visto usare questi oggetti. Probabilmente fanno parte di ciò che si definiva anche allora di ‘rappresentanza’, cose che sono passate di moda già da un po’ e, oggi, in modo definitivo. E questo è l’altro motivo per non usarlo. 

Esiste anche un altro motivo, il più convincente: la porcellana è talmente fine da sembrare impalpabile. Anche rispetto all’altro servizio, che pure è Richard Ginori ma molto più recente.

Prendendolo in mano si ha quasi l’impressione che si possa sbriciolare tra le mani. Per prendere la tazzina o versare il tè ci vogliono mani senza incertezze che afferrino con decisione ma delicatezza. Non fa per me, meglio guardarlo, quasi fosse in un museo. 

Come si fa quando si va alla scoperta della sezione della porcellana nel Victoria & Albert Museum a Londra, per inseguire, come sono riuscita a fare, le tracce dell’installazione in ceramica bianca di Edmund de Waal, dopo aver letto il suo La strada bianca. Storia di una passione (Bollati Boringhieri 2016). 

Trovo tutto questo e, forse, anche altro, quando alzo lo sguardo dalla pagina per rivolgerlo alla ‘credenza’ dei ricordi.

(dedicato a Gabriella e alla prossima visita che faremo insieme nei paesi della Tuscia)

2 pensieri su “Uno sguardo alla ‘credenza’ dei ricordi

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