Primo Levi, Se non ora, quando?, Einaudi (Supercoralli) 1982

Il titolo

Il titolo – Se non ora, quando? – è ricavato dal Pirké Avoth (Le massime dei Padri, II sec. d.C., compreso nel Talmud che, con la Bibbia, è il testo fondamentale dell’ebraismo): “Se non sono io per me, chi sarà per me? E quand’anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?”.

L’edizione che leggo 

Il romanzo è stato scritto da Primo Levi a distanza di quattro decenni dai fatti oggetto della narrazione ed è stato pubblicato da Einaudi a ridosso della composizione (1982).  Alla prima edizione ne sono seguite una seconda (1992) e una terza (2014), segno di un interesse ancora vivo per l’autore e la sua narrativa storica oltre che per i due volumi di memorie dedicati, rispettivamente, al periodo di detenzione nel campo di concentramento di Auschwitz e al viaggio di ritorno iniziato quando, all’arrivo dell’Armata Rossa, i nazisti abbandonarono il campo e i sopravvissuti si ritrovarono liberi (Se questo è un uomo, Torino, De Silva, 1947; poi Torino, Einaudi, 1958; La tregua, Torino, Einaudi, 1963; Torino, Einaudi, 2014).

La copia che ho tra le mani non è nessuna di queste. Si tratta di un’edizione su licenza della casa editrice Einaudi edita dalla rivista Famiglia Cristiana come supplemento al n. 39 del 28 settembre 2003 il cui direttore responsabile è stato Antonio Sciortino (dal 1999 al 2016). La scelta di questa pubblicazione conferma la possibilità di un proficuo dialogo interreligioso portato avanti, in successione, dai Papi Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco (cfr., tra l’altro, Papa Francesco con Fabio Marchese Ragona, Life. La mia storia nella Storia, HarperCollins Italia, 2024).

È una copia recuperata sul mercato dell’usato (ringrazio per questo come per altri preziosi reperti la Biblioteca di Babele di Tarquinia  e la Libreria Fernandez di Viterbo che supportano la mia ‘scriteriata’ mania per i libri che riesco a trovarvi, datati, anzi datatissimi, ma sempre preziosi!).

I dintorni del testo

Una carta geografica è l’unico apparato iconografico, in apertura del volume. Contiene l’itinerario dei protagonisti attraverso un territorio sterminato, fatto di soste più o meno lunghe, di rifugi improvvisati, di ospitalità insperate, di interminabili marce a cielo aperto prevalentemente durante la notte, di tratti percorsi sui mezzi più improbabili, fortunosamente recuperati lungo il cammino o trafugati in case completamente abbandonate, di morte e sopravvivenza, per due anni (luglio 1943 – agosto 1945). 

Ingrandendo la carta per leggere i nomi dei singoli luoghi, ho cercato di seguire il tragitto da Brjansk in Russia a Milano, il punto di arrivo, attraverso l’attuale Bielorussia, la Polonia, la Germania, l’Austria, l’Italia via Brennero, stipati in un vagone abbandonato e attaccato fortunosamente a un treno in transito per Milano.

Il genere 

Se non ora, quando? è definito generalmente un romanzo. Senz’altro è un’opera di narrativa costruita su fatti realmente accaduti nell’arco di tempo indicato, corrispondente al periodo in cui viene a galla tutto l’orrore dei campi di concentramento voluti dal regime nazista per sterminare ebrei ma anche renitenti alla leva, zingari, omosessuali, disabili, prigionieri di guerra e dissidenti politici in nome della presunta superiorità della razza ariana. 

Per il carattere della narrazione, che si cala nella realtà di partigiani, profughi, contadini protagonisti di un racconto in cui si alternano le voci dei singoli al coro multiforme di interi gruppi; per l’alternarsi di azione e di conversazioni nei lunghi periodi di stasi e per le descrizioni di uomini, cose e paesaggi, il genere si avvicina all’epopea.

Un’epopea destinata a racchiudere riflessioni, sentimenti, dolore, incredulità di ciascuno dei protagonisti di fronte alla drammatica realtà di un genocidio perseguito ad ogni costo, di fronte al disvelarsi del quale si rimane increduli, stupefatti, impietriti, trovando tuttavia la forza di interrogarsi sul significato di uccidere i responsabili di un crimine così orrendo per salvare qualche sparuto sopravvissuto, fortunosamente sfuggito alle uccisioni finali e all’abbandono dei campi di concentramento da parte dei nazisti.

I protagonisti 

Protagonista dell’intera vicenda è un gruppo variegato – ebrei di nazionalità diversa, che parlano lingue diverse, a stento accumunati dalla lingua comune (yiddish), e hanno convinzioni diverse (politiche ma anche religiose) – che intraprende un cammino arduo, cooperando a dare salvezza, aggregandosi ad altri gruppi di partigiani, di sbandati, di sopravvissuti, con storie diverse alle spalle e la consapevolezza del destino toccato a migliaia e migliaia di correligionari, di diversa provenienza.

Il gruppo è continuamente oscillante per numero, con alcune persone di riferimento che di volta in volta diventano voce narrante. Quello originario si aggrega e disaggrega ad altri gruppi che vagano dispersi all’indomani della fuga da campi di sterminio abbandonati, in cerca di salvezza, privi di tutto – vestiti, cibo, utensili, armi … – affidandosi al buon cuore di chi incontrano, spesso ancora più disperato.

Primo Levi ne ricostruisce il viaggio per migliaia di chilometri mentre fuggono, si nascondono, soffrono la fame e il freddo, cooperano come possono ad azioni partigiane, interrogandosi drammaticamente sulla legittimità di uccidere i nazisti persecutori a loro volta in fuga disordinata … lungo un periodo di due anni dal luglio 1943 ad agosto 1945, quando il loro percorso si conclude alla stazione di Milano.

Il contenuto

In una nota finale al testo, l’autore chiarisce: “i fatti che ho descritti sono realmente avvenuti, anche se non sempre nei luoghi e nei tempi che ho loro assegnati …” e che realmente “partigiani ebrei hanno combattuto contro i tedeschi, quasi sempre in condizioni disperate, ora incorporati in bande più o meno regolari sovietiche o polacche, ora in formazioni costituite solo da ebrei”.

D’altra parte, le vicende sono narrate tenendo ben presenti fatti e personaggi, ma senza volere necessariamente riprodurre i tempi e le modalità. Ciò che è raccontato è tutto realmente accaduto, i personaggi che hanno agito come nella narrazione sono realmente esistiti, ma la narrazione non implica la coincidenza con la realtà. Piuttosto si basa sull’esperienza personale, sulla tradizione di quelle vicende e sulla memoria fissatasi nella mente e nel cuore dell’autore.

Il messaggio

Mi sono immersa nel testo, distribuendo i dodici capitoli in sei giorni e immedesimandomi, secondo il mio solito, nella lettura (che sia un romanzo per adolescenti o qualsiasi altra narrazione, non riesco a mantenere un atteggiamento distaccato). Pagina dopo pagina ho cercato di recuperarne il senso profondo e il messaggio che ne emergeva.

Ne ho trovato uno soltanto: l’assoluta necessità di recuperare il senso dell’umanità, oltre l’orrore scatenato dalle ideologie antisemite e razziste diffusesi con l’affermarsi dei regimi dittatoriali.

Nel IX capitolo, in particolare, trovo alcuni passaggi particolarmente significativi che inducono a riflettere sul passato ma anche su recenti avvenimenti e, ancora una volta, sul recupero del senso profondo dell’essere uomo e della necessità di rifuggire dai distinguo tra gli uomini (sesso, colore, opinione, religione …) perché, quale che sia il Dio in cui ciascuno crede, sicuramente non ne sarebbe contento …

Di seguito il passaggio che mi ha colpito maggiormente:

  • Scherzi a parte, tenente, capisco il perché della tua domanda, ma sono

imbarazzato a risponderti. Non siamo ortodossi, non siamo regolari, non siamo legati da un giuramento. Nessuno di noi ha avuto molto tempo per meditare e chiarirsi le idee; ognuno di noi ha dietro di sé un brutto passato, diverso per ognuno. Quelli di noi che sono nati in Russia hanno succhiato il comunismo con il latte della madre: sì, proprio le loro madri e i loro padri hanno fatto di loro dei bolscevichi, perché la rivoluzione di ottobre aveva emancipato gli ebrei, li aveva resi cittadini con pieni diritti. A modo loro sono rimasti comunisti, ma nessuno di noi ama più Stalin dopo che ha fatto il patto con Hitler; e del resto Stalin non ci ha mai amati molto.

  • Quanto a me e agli altri che sono nati in Polonia, le nostre idee sono varie, ma qualcosa abbiamo in comune, tra noi e gli ebrei russi. Tutti, quale più, quale meno; quale presto, quale tardi ci siamo sentiti stranieri in patria. Tutti abbiamo desiderato una patria diversa, in cui vivere come tutti gli altri popoli, senza sentirci intrusi e senza essere segnati a dito come stranieri, ma nessuno di noi ha mai pensato di recingere un campo e di dire “questa è terra mia”. Non desideriamo diventare proprietari, desideriamo rendere fertile la terra sterile della Palestina, piantare aranci e ulivi nel deserto e farlo fruttificare. Non vogliamo i kolchoz di Stalin vogliamo comunità in cui tutti siano liberi e uguali, senza costrizione e senza violenza; in cui si possa faticare di giorno, e alla sera suonare il violino; in cui non ci sia denaro, ma ognuno lavori secondo le sue capacità e riceva secondo i suoi bisogni. Sembra un sogno ma non è: questo mondo è già stato creato dai nostri fratelli più previdenti e coraggiosi di noi, che sono emigrati laggiù prima che l’Europa diventasse un Lager.
  • In questo senso ci puoi chiamare socialisti, ma non siamo diventati partigiani per le nostre idee politiche. Combattiamo per salvarci dai tedeschi, per vendicarci, per aprirci la strada; ma, soprattutto, perdonami la parola grossa, per dignità. E infine devo dirti questo: molti fra noi non avevano mai gustato il sapore della libertà, e l’hanno imparato a conoscere qui, nelle foreste, nelle paludi e nel pericolo, insieme con l’avventura e la fraternità. 

Per riflettere

Questo come molti altri passaggi della narrazione presentano questioni di grande interesse alle quali non è facile dare risposte.

Il desiderio di trovare una terra dove stabilirsi appare, in queste pagine, senza dubbio improntato a valori di eguaglianza ma non toglie comunque che la creazione di Israele, alle radici e nella sostanza, è stata frutto della politica coloniale europea (dalla Dichiarazione Balfour nel 1917 in poi) che portò alla nascita dello Stato di Israele il 14 maggio 1948.

La spinta ideale ad emigrare organicamente per creare una nuova vita, basata sull’integrazione e sulla graduale trasformazione della società, è una spinta perfettamente legittima soprattutto a seguito della mostruosa realtà del genocidio venuta pienamente alla luce.

Cosa ben diversa è ricevere una terra da una potenza colonizzatrice senza alcuna considerazione per le comunità native e con l’idea che la terra in questione è ’sterile’, laddove proprio i locali si prodigarono per aiutare i nuovi “inquilini”  a selezionare le coltivazioni adatte e a fornire elementi per coltivarle, alla luce delle condizioni climatiche della regione.

Questo sionismo “idealista” ed “egualitario”, che sicuramente è stata la spinta originaria del movimento, non ha saputo o potuto confrontarsi con la realtà, prendendo le distanze dalle spinte colonialiste che hanno caratterizzato per secoli la politica europea, ma adattandosi ad esse nei modi e nelle forme (basti pensare alla ‘conquista’ dell’America).

Il sionismo di Primo Levi appare vicino a quello di Albert Einstein, che conteneva l’idea di uno stato dove tutti hanno gli stessi diritti.  Lui insieme a Hannah Arendt ed altri mandarono una lettera a New York Times nel 1948 per esprimere la propria obiezione al supporto americano di elementi fascisti e nazisti in Israele.

Ma, evidentemente, non furono ascoltati …

Un pensiero su “Primo Levi, Se non ora, quando?, Einaudi (Supercoralli) 1982

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