La fine dell’anno e l’inizio di un nuovo anno, nel sentire comune e nei meccanismi ineludibili delle logiche del mercato1, sono momenti di festa.
Si lascia qualcosa, si va verso qualcos’altro che si spera migliore. O, almeno, questa è la lettura corrente.
Per una serie di motivi, in gran parte legati a consolidate abitudini familiari in corrispondenza degli anni Cinquanta e Sessanta, non sono mai riuscita a sentire questo momento dell’anno come una vera festa.
Certo, a quei tempi, era un’occasione per riunire la famiglia attorno ad una tavola imbandita in modo insolitamente abbondante, con posti rigidamente assegnati, attorno al capofamiglia – il nonno -, partecipando alle funzioni religiose nella Chiesa più vicina (sulla quale aleggiava il ricordo dei bombardamenti alleati che la danneggiarono in larga parte il 17 gennaio 1944, nel quadro di un’azione che mirava a colpire la ferrovia).
Il presepe – piccolo, allestito in una rientranza della credenza Anni Venti (proprio quella della foto, grazie a mio cugino che l’ha conservata!) – era lì a ricordare che le festività, dall’Avvento fino all’Epifania, erano prima di tutto ricorrenze dell’anno liturgico, sostituito oggi dall’albero addobbato (ahimè, spesso proveniente da apposite piantagioni da tagliare nell’imminenza della festività).

A poco a poco, tutto è cambiato. Confrontarsi con il mondo (quello immediatamente circostante e quello più ampio), ha significato confrontarsi con questioni, situazioni e avvenimenti sempre più complessi e ampi, a tutti i livelli e in una dimensione globale.
Oggi, mentre si riduce, inevitabilmente, il tempo che ho a disposizione, è diventato per me indispensabile guardare al mondo e ai meccanismi che lo governano esercitando il diritto di critica. Per farlo, peraltro, è indispensabile consapevolezza.
E la consapevolezza può nascere solo guardando indietro, ripescando dal passato ricordi, documenti, scritti, testimonianze capaci di creare un corto circuito tra quel passato e il presente come è, indipendentemente da noi, per la colpevole delega che, da cittadini, affidiamo a personaggi non sempre in grado di gestire un paese democratico per il prevalere degli interessi di chi fa politica e delle logiche economiche imperanti.
Da questa necessità, discende l’abitudine di ricercare e leggere testi apparentemente superati per trovarvi chiavi di lettura per il presente.
Percorrendo questo cammino, ho intrapreso la lettura di alcuni titoli di Élisée Reclus, disponibili in rete2, cominciando da Storia di una montagna (1880), proseguendo con Storia di un ruscello (1869) e lasciandomi trascinare da altri ‘rivoli’ che sgorgano, inevitabilmente, in corso di lettura.
Élisée Reclus – ‘geografo, ma anarchico’, come si autodefinisce – scrive e descrive dal vivo, durante i suoi viaggi in giro per il mondo, da esule e da geografo per la casa editrice Hachette.
Storia di una montagna, in ventidue brevi capitoli, non parla di una montagna specifica.
È una narrazione che prende le mosse dalla descrizione dell’ambiente montano in tutti i suoi aspetti – rocce e minerali, massi e cristalli, alberi e animali, anfratti e gole, valli e caverne, fenomeni atmosferici e clima, fossili e pietre -, ivi compresa la presenza umana e le caratteristiche di una convivenza non facile e tuttavia pervicace.
Non c’è nessun riferimento a luoghi specifici ma le valli, le cime, i boschi, le valanghe, la neve, il ghiaccio, il torrente e l’azione sul territorio degli agenti che intervengono (vento, acqua, ghiaccio, …) possono corrispondere a qualsiasi montagna che il lettore conosce o, se non conosce direttamente l’ambiente montano, possono costituire una buona guida per prenderne consapevolezza sulla carta, prima di avventurarsi tra i suoi sentieri.
La descrizione puntuale e minuziosa non è mai solo descrittiva.
È percorsa da una riflessione costante sulla natura sempre all’opera, nei grandi spazi come nei più piccoli anfratti, e sull’interazione dell’uomo con la natura.
L’attenzione di Reclus si concentra sugli uomini che vivono, stabilmente o stagionalmente, in montagna: il pastore, il boscaiolo, il montanaro.
Nei capitoli dove l’attenzione si focalizza sugli uomini, il ragionamento si sposta su questioni etiche e filosofiche che culminano, nell’ultimo capitolo, in due scenari che anticipano il futuro:
– la critica al comportamento degli alpinisti per i quali la montagna diviene ‘piedistallo’ per il loro compiacersi della vetta raggiunta (“Giacché l’era delle grandi scoperte geografiche volge al suo termine, e, salvo alcune lacune, le terre sono quasi completamente conosciute nel loro insieme, altri viaggiatori, dovendo contentarsi di una gloria minore, si disputano l’onore di essere i primi a superare le montagne non ancora visitate: persino nella Groenlandia si vanno a cercare delle cime ancora vergini di piede umano”);
– l’ipotesi sui comportamenti futuri dell’uomo, nel tempo in cui non ci sarà da ‘scoprire’ ma sarà possibile solo ‘utilizzare’ la montagna, nel modo più facile e meno faticoso possibile (con ferrovie di montagna, funicolari, trafori ecc.): “Prima o poi l’età eroica dell’esplorazione delle montagne dovrà finire come in genere avrà termine l’esplorazione del pianeta; e forse il ricordo dei più arditi esploratori diverrà una leggenda. Quale prima, quale dopo, tutte le montagne saranno state scalate: dei sentieri facili, e in seguito (nei luoghi popolosi) delle strade maestre verranno costruite dalla base alla cima, per facilitarne la salita, anche alle persone deboli o di poca lena; per mezzo delle mine si allargheranno i crepacci, per modo che i dilettanti di curiosità naturali possano ammirare la testura del cristallo; chi sa, degli ascensori meccanici verranno disposti nei punti malagevoli; e gli sfaccendati delle cinque parti della terra si faranno innalzare lungo delle muraglie a picco, fumando la sigaretta e ciaramellando della cose più frivole di questo mondo”.
Le ultime pagine di Storia di una montagna sono un richiamo preoccupato agli effetti collaterali del progresso che rende le condizioni di vita più facili e un invito a mantenere alta l’attenzione sulla necessità dell’educazione (“Checché si dica dai perpetui lodatori del buon tempo antico, la vita, così dura per la maggior parte degli uomini, diverrà ogni giorno più facile, forse troppo facile per ciò che riguarda la ginnastica della volontà e la forza del carattere. Toccherà a noi di vegliare a che questa soverchia facilità non danneggi le future generazioni: procureremo che una gagliarda educazione armi il giovane di indomabile coraggio e lo renda capace dei più eroici sforzi; solo mezzo per conservare all’umanità il suo vigore morale e materiale! Spetta a noi di supplire con delle prove volontarie e metodiche a quella lotta per l’esistenza, che si farà via via sempre meno aspra”).
Inevitabilmente, vado con il pensiero all’insegnamento della geografia – dalle elementari al biennio delle superiori – da anni ormai divenuta la ‘cenerentola’ delle discipline; alla distanza sempre più ampia tra il libro di testo e la realtà, tra educazione e criteri di valutazione e mi interrogo sulla possibilità di introdurre passi da un testo come Storia di una montagna come lettura geografica e ‘ambientalista’, opportunamente contestualizzata, all’insegna dell’ideale proposto da Elisée Reclus – “La vera scuola dev’essere la natura libera” – che, oggettivamente, non è praticabile nella quotidianeità, se non in casi particolari e con maestri d’eccezione, come valido surrogato e/o introduzione alla conoscenza diretta, quando e se l’alunno ne ha la possibilità, grazie alla scuola e alla famiglia.


NOTE
1. L’articolo è stato originariamente pubblicato in Infodem.it nel gennaio 2022. Mentre lo rileggo, siamo in agosto 2024 e negli esercizi commerciali i saldi autunnali sono iniziati da tempo e si cominciano a intravedere i preparativi per le festività dell’autunno e dell’inverno (foto scattata il 10 agosto, in un grande esercizio commerciale).

2. Online si reperisce la versione realizzata dall’Associazione Liber Liber nell’ambito del Progetto Manuzio (https://www.liberliber.it/online/aiuta/progetti/manuzio/ ) che riproduce l’edizione de L’università popolare, 1909, con l’indicazione generica del nome proprio Laura per il traduttore. Su questa attività editoriale esiste un volume di Ettore Fabietti, Manuale per le Biblioteche Popolari, Milano Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari, risultato della collaborazione dell’autore con Filippo Turati nell’ambito delle politiche per l’elevamento culturale delle classi subalterne. Fabietti fu posto da Turati alla guida del Consorzio milanese delle biblioteche popolari, fondato nel 1903. Si può inoltre consultare online il volume dal titolo: Le biblioteche del popolo. Il primo anno del Consorzio milanese per le biblioteche popolari dello stesso Ettore Fabietti con la prefazione di Filippo Turati.
Esiste inoltre l’edizione in versione EPUB.
A lettura completata, ho scoperto la versione cartacea di Storia di una montagna per i tipi della casa editrice Tararà di Verbania (2008), arricchita da una prefazione di Mercedes Bresso, dal commento di Claude Raffestin e, soprattutto, con una nuova traduzione, di Marcella Schmidt di Friedberg. Non è detto che non decida di procurami anche questa edizione, soprattutto per il commento di Raffestin (autore tra l’altro di Per una geografia del potere, Unicopli 2008) e per la traduzione che sicuramente aggiorna notevolmente quella ormai superata di inizio secolo scorso che, tra l’altro, presenta la ricorrenza di forme ortografiche considerate desuete (come si evince molto chiaramente da Aldo Gabrielli, Si dice o non si dice? Guida pratica allo scrivere e al parlare, Mondadori 1976, ad esempio, roccie/quercie/erbaccie, ecc. in luogo della normativa corrente rocce, querce, erbacce).
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