Un piccolo reperto e il profumo dei ricordi

“Quando pensate di venire a Viterbo?”

“Dopo Santa Rosa, sicuramente. Per quell’epoca mi sarò ripresa. Devo restituire alcuni libri ad Angela” 

“Bene, perché ho una sorpresa per te”

“Oddio, di che si tratta?”

“Ti ricordi il portasigarette del nonno?”

“Si, certo”

“L’ho ritrovato”

“Ma tu pensa!”

“Voglio che lo conservi tu”

“Oddio, grazie Tommaso! Ti faccio sapere allora, a presto!”

“A presto”

È una semplice conversazione WhatsApp (che ci tiene a contatto con le persone care, quelle vicine ma – soprattutto – quelle lontane) tra me e mio cugino Tommaso, il custode di una parte della campagna che era di nostro nonno e di reperti provenienti dalla casa dei nonni. 

Molto più giovane di me (quando è nato, io avevo quindici anni), mi considera la memoria storica sul nonno. Peraltro ha su di me il vantaggio di avere condiviso con la nonna lunghi anni successivi alla sua morte.

Quindici anni cambiano la prospettiva su cose e persone. Così, ogni tanto ci aggiorniamo e, quando possibile, ci incontriamo … snocciolando ricordi, situazioni, oggetti, carte del nostro passato comune.

Nell’ultima occasione, ho ricevuto dalle sue mani il portasigarette da cui il nonno traeva due sigarette al giorno: una dopo pranzo e una dopo cena, che fumava rimanendo seduto al tavolo da pranzo mentre i ‘convitati’, alla spicciolata, si alzavano e si allontanavano. In piena estate si arrivava ad essere tutti radunati: nonni, figli con rispettivi consorti, senza contare la governante di una vita intera. L’orario dei pasti era fisso. E i pasti erano l’unico momento di condivisione dello stesso spazio. Per il resto si era liberi di vagabondare in campagna, di inventare giochi, di seguire i lavori della campagna con la famiglia che se ne occupava, di rifugiarsi nelle camere …

Inutile dire che il portasigarette (completo di sigarette Macedonia extra senza filtro!) mi ha fatto fare un tuffo nel passato, facendomi sentire più ricca. Di per sé, non è un oggetto di grande valore, ma ha la forza di riportarmi a quegli anni, di ripensare a quello che è stato, di sentirmi ancora più vicina ai nonni con i quali ho condiviso lunghe estati in campagna.

Mi sono sentita più ricca, quasi avessi ricevuto un’eredità (al pari di quella ricevuta da Edmund de Waal di cui racconta il suo problematico e lungo recupero nel suo Un’eredità d’avorio e d’ambra, Bollati Boringhieri, 2022).

L’oggetto in questione è istoriato con vedute giapponesi e il Giappone è l’unico elemento in comune tra la mia insignificante ma preziosissima eredità e quella,  preziosissima, di Edmund de Waal!

Il caso ha fatto sì che, proprio il giorno prima di ricevere questo inaspettato reperto/ricordo, avessi ripescato tra i libri della nostra disordinatissima biblioteca, una copia di Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters con una dedica preziosa: era il regalo che le sorelle hanno fatto in occasione del suo onomastico a mia zia Adele, nel settembre del 1959. E mia zia, qualche anno dopo me lo ha fatto conoscere, insieme a tanti altri libri (John Steinbeck, Harper Lee, ecc.). Ero ormai adolescente, frequentavo il ginnasio, e la consuetudine con la zia era un’abitudine: mi piaceva stare con i nonni e, per periodi anche piuttosto lunghi, i nonni, gli zii e i loro figli sono stati la mia famiglia allargata (con l’approdo all’Università i vagabondaggi dovuti al lavoro del babbo non facevano più per me).

Tommaso era il loro primogenito e, qualche giorno fa, quando finalmente ci siamo incontrati, mi ha raccontato di quando attuò la sua unica e spericolata scorribanda lungo tutto il periplo della casa (una serie di locali comunicanti come era tipico di vecchi appartamenti costruiti attorno alla tromba delle scale), un locale dopo l’altro, di corsa, con il cuore il gola, per la paura di essere scoperto – magari dal nonno seduto alla sua scrivania nello studio – e arrivando a fine corsa affannato, arrossato e trafelato, ma sano e salvo, rifugiandosi al sicuro nell’appartamentino  riservato agli zii e ai loro figli. Me lo sono visto davanti, entrambi con cinquanta anni in meno, e non ho potuto non scoppiare a ridere. 

E mentre confessava la paura di incontrare il nonno, la nonna o, al massimo, la governante, e di essere aspramente rimproverato per quella corsa non autorizzata, mi rendo conto che non poteva sapere quello che io avevo già capito: nessuno in quella casa avrebbe rimproverato o alzato la voce per una cosa del genere. Al massimo, avrebbe detto: “Attenzione, rischi di cadere!”. Perché, in quella famiglia, in generale, non si rimproverava, si educava con l’esempio, con la calma, spesso con il silenzio. Anche con il rischio di non ottenere i risultati sperati.

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