L’umanità malata. Un ‘dintorno’ alla ribalta e qualche riflessione dal passato, molto attuale 

Quando ho parlato di un romanzo ormai dimenticato, proveniente da un passato che appare lontanissimo ma è ancora saldamente presente nei suoi esiti (Letture fuori moda: un romanzo datato e i suoi “dintorni”, Kazimierz Brandys, La madre dei re), oltre al romanzo ho attentamente analizzato quelle che Gerard Genette ha definito le ‘soglie’ del testo e, in particolare, il “peritesto” editoriale, ossia le fitte pagine poste dall’editore a conclusione del libro con un consistente elenco di titoli – suddivisi per tipologia – pubblicati nella stessa collana (UE Feltrinelli) alla data di pubblicazione (1962).

Per quanto strano possa apparire, anche questo elenco ragionato di titoli rappresenta una lettura fondamentale  per scoprire ciò che veniva proposto a livello editoriale in quella fase storica. A parte alcuni saggi ancora regolarmente riproposti, solo alcuni titoli sono stati ripubblicati fino agli anni Settanta, altri ancora sono definitivamente scomparsi dalla scena editoriale. Eppure, a ben guardare, potrebbero essere utili per capire l’oggi, tanto complicato quanto diverso e, comunque, risultato anche di avvenimenti del passato.

Mi è poi capitato di riconosce uno dei titoli presenti in quelle pagine, mentre scorrevo gli scaffali pieni di libri disposti in ordine caotico in un negozio dell’usato: Si fa presto a dire fame. Altro editore, Mondadori, altro anno, il 1967. La prima edizione era stata del 1955. L’autore è Piero Caleffi (1901-1978), attivo nel Partito d’Azione e nella Resistenza, poi Senatore e Sottosegretario del Ministero dell’Istruzione ai tempi in cui frequentavo il Liceo.

Non si tratta di un romanzo. Sono le memorie relative alla vicenda vissuta dall’autore tra il luglio del 1943 e il maggio 1945 e che, a distanza di dieci anni, fissò sulla carta. La prefazione è di Ferruccio Parri (1890-1981). La narrazione ripercorre la cattura, l’arrivo nel Lager di Bolzano, il trasferimento in quello di Mauthausen, la sopravvivenza (perché non di vita si può parlare) degli internati nei campi, fino all’inizio di maggio del 1945 quando, in fretta e in furia, gli addetti al campo, smantellano e fanno smantellare il campo, eliminando gli addetti alle camere a gas, tra urla e grida in cui i deportati riconoscono i nomi di Hitler e di Doenitz, rimanendo in balia di se stessi fino all’arrivo degli americani. 

La pagina conclusiva del testo ricorda i giorni della ritrovata libertà con alcune riflessioni valide al di là dell’occasione specifica.  Caleffi e un compagno di prigionia conversano, seduti all’aperto, senza sapere come e dove andare e, soprattutto, senza averne le forze:

“Negri, com’è bella la vita” dissi.

“Sarebbe bella se non ci fosse guerra” rispose.

“Forse non ci saranno più guerre, se i giovani saranno capaci di formare un nuovo mondo”.

“Illusioni. Ci saranno sempre dei ‘nazisti’, e non solo in Germania”.

“Forse. Ma bisogna pure che gli uomini se ne difendano organizzandosi in modo diverso, in una società che non abbia armi e non abbia campi di eliminazione e non consenta agli uomini di far valere i loro diritti o la loro frenesia di conquista con la guerra. Nessuno deve più soffrire per le proprie idee, per le proprie convinzioni religiose o politiche. Nessun uomo deve sopraffare un altro uomo. Questi maledetti campi insegneranno pure qualcosa”.

“Ho gran paura” disse Negri “che sarà come non fossero mai esistiti”.

“Non dirlo, Negri” risposi; e nella mia voce tremò l’angoscia, ma dentro al cuore la speranza tenne le sue radici.

“Ma come potrai rimediare all’odio, nato qui dentro e che si spargerà per il mondo, per pochi che siamo rimasti?”

“L’odio degrada l’uomo e genera la violenza, e in definitiva i campi di eliminazione”.

“Già” interloquì Calore, “Nulla si riuscirà a costruire se non si potrà garantire all’uomo la libertà dalla fame e dalla paura. L’uomo può essere buono o cattivo, angelo o bruto, a seconda che sia libero o schiavo, a seconda che conosca o ignori”.

“Hai ragione” dissi. “L’uomo è libero quando la fame non lo degrada e non lo esaspera, non gli impedisce di pensare e di volere. L’uomo è libero quando può decidere il proprio destino, serenamente, senza paura; quando non è schiavo dei suoi istinti peggiori, quando i suoi migliori impulsi sono incoraggiati e guidati dalla ragione e dall’amore degli altri uomini e per gli altri uomini”.

A distanza di poco meno di 80 anni, in un mondo in cui quello che conta è il potere economico al quale il potere politico si sottomette (o – meglio – che la politica usa come strumento di potere), nell’illusione generata dal poter ‘liberamente’ godere di ciò che la produzione industriale mette a disposizione senza apparenti limiti, nella deriva rappresentata dal non osteggiato abbassamento del livello culturale da parte dei potere e nella conseguente perdita di consapevolezza dei processi storici che hanno visto e vedono altre guerre, altre dittature, altre persecuzioni, altri rivolgimenti da allora ad oggi  (impossibile enumerarli, dal Vietnam alla guerra nei Balcani e oltre, in Africa, in America Latina, in Asia) che si traduce in un’attenzione – distorta, semplicistica, disinformata – su quella in atto, semplicemente perché più vicina, suscettibile di sviluppi catastrofici e con il coinvolgimento di persone che sentiamo simili (mentre gli ‘altri’ sono profughi e tali rimangono), lascio la parola a un autore che ha osservato l’umanità dal punto di vista delle patologie psichiatriche, Beppino Disertori (Trento, 1907- 1992). 

Mi sono imbattuta in questo autore tramite un libro con dedica autografa regalato da un altro psichiatra, Alberto Bizzarri, a mio nonno nel 1967 (anche lui psichiatra), con la prefazione proprio di Disertori. Ho rintracciato le sue opere tramite la Fondazione Museo Storico del Trentino. La dottoressa che si occupa dell’archivio mi ha indicato, tra l’altro, un articolo – scaricabile online dal sito dell’Accademia degli Agiati di Rovereto (una realtà attiva dal 1750) che mi ha incuriosito già dal titolo: Perturbamenti morbosi nell’evoluzione dell’umanità. Furor razzistico, furor nazionalistico, furor ideologico e nevrotizzazione della società moderna. L’articolo risale al 1966. L’autore è morto nel 1992. Se fosse vivo, con ogni probabilità, sentirebbe l’obbligo deontologico di aggiornarlo. Ne riporto le conclusioni, come spunto per una riflessione sull’umanità:

“… possiamo catalogare nella medesima categoria … fenomeni psicopatologici collettivi in apparenza assai diversi, come i tre furori razzistico, nazionalistico, ideologico, da un lato, e la nevrotizzazione della società umana, dall’altro lato. Se aggiungiamo che la nevrotizzazione con i suoi sentimenti dell’allarme, d’ansia, di tristezza, di stancabilità irritabile, e con le sue esigenze d’evasione, può interferire con i tre furori nel suscitare incomprensioni, diffidenze e ostilità fra individui e popoli, con scariche di aggressività micidiale, e può perciò contribuire a immani conflagrazioni, di cui questo secolo di massima accelerazione del progresso e della convergenza ci ha offerto già due catastrofici esempi mondiali, allora si manifesta tutta la portata dello studio scientifico socio-psichiatrico delle infermità mentali collettive. E ciò vale tanto per una profilassi delle sciagure che possono mettere a repentaglio l’esistenza stessa della civiltà non solo, ma del pianeta medesimo con il genere umano ospitato, quanto per il raggiungimento di quella meta in cima a tutti i nostri pensieri che è la realizzazione armonica dell’umanità, intesa come comunità di uomini liberi e giusti, pacifici e fraterni, aperti a un sempre maggiore perfezionamento spirituale” (il testo integrale dell’articolo a questo link).

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