Quando ciascuno teneva la fratta personale …

Premessa: l’articolo risale al 2021 ed è stato pubblicato per la prima volta in Infodem.it. Nulla è cambiato rispetto a quanto scritto se non il fatto che l’Oratorio di San Pellegrino a Bominaco è nuovamente visitabile.

Leggendo: Calendario. L’anno agrario, civile e religioso. La vita contadina di ogni giorno ovvero Quando ciascuno teneva la fratta personale, Regia edizioni 2021

Questa storia ha avuto inizio in farmacia. È la storia di un libro. A prima vista, una farmacia non ha nulla a che fare con un libro ma una farmacia di paese è anche un punto di incontro e di scambio. Tutti ci vanno, più o meno regolarmente, e il farmacista non disdegna quattro chiacchiere per scambiare notizie e accadimenti locali. Niente di fondamentale, nella maggior parte di casi, se non quisquilie di interesse puramente paesano.

Per gli avvenimenti importanti ci sono due canali: uno moderno – la chat del sindaco che ci tiene tutti costantemente informati (pandemia e notizie di interesse generale) -, l’altro ‘antico’: il suono delle campane che annuncia nascite (rarissime) e morti (decisamente più frequenti).

Così, un giorno, qualche tempo fa, il farmacista mi ha accolto con fare radioso che preannunciava qualcosa di assolutamente speciale. Appena mi ha visto entrare, ha recuperato qualcosa da sotto il banco – un libro – e me lo ha porto come qualcosa di eccezionale. ‘Guardi, professoressa, guardi! Lo ha lasciato proprio per lei …  – cita l’autore – Giancaterino Gualtieri’.

Mi è bastato un attimo per capire di cosa si trattasse e per realizzare che, contro ogni aspettativa, il sogno di una vita per l’autore si è materializzato. 

Il libro in questione ha un titolo ‘moltiplicato’: Calendario. L’anno agrario, civile e religioso. La vita quotidiana di ogni giorno ovvero ‘Quando ciascuno teneva la fratta personale’1.

L’immagine di copertina parla da sola. Si tratta della riproduzione del calendario affrescato sulle pareti dell’Oratorio di San Pellegrino a Bominaco (AQ), risalente all’età carolingia, restaurato nel 1263 e salvatosi dalla distruzione del complesso abbaziale durante le lotte tra Angioini e Aragonesi.

Gli affreschi risalgono al periodo del restauro e sono una preziosa testimonianza della diffusione, allora, della regola benedettina e, oggi, di un mondo ormai in estinzione. Per la verità, anche nel paese dell’autore, San Benedetto in Perillis, sullo stesso versante di Bominaco, qualche colle più a sud – quel tanto che basta per essere affacciato sulla Valle Peligna e avere un osservatorio privilegiato tanto sul Gran Sasso che sul versante della Majella – c’è un’abbazia benedettina, in cima al paese. Oggi non è visitabile, come altre zone del paese, a causa dei danni provocati dal sisma del 2009. Il paese peraltro è in posizione interna rispetto alla strada statale, decentrato e ‘disconnesso’. Nell’epoca del ‘villaggio globale’ è semplicemente un ‘villaggio’, con pochissimi abitanti, per la maggior parte anziani, una connessione internet praticamente inesistente, un bar e un negozio di alimentari immerso nell’oscurità, con le pareti tappezzate dalle scansie tipiche delle drogherie di una volta. Entrambi aprono per poche ore al giorno, in una logica precapitalistica.

Di questo paese, l’autore del libro è stato sindaco. In questo paese, l’autore ha realizzato un Museo civicoche gestisce, organizza, tiene pulito, apre per i visitatori, ai quali fa da guida con dovizia di informazioni e di particolari. Il Museo è la sua creatura. Il libro è, per certi aspetti, la versione cartacea del museo. Sono, indubbiamente complementari. Tuttavia, il libro, oggi che ha una veste editoriale, può essere complementare ad altri Musei della civiltà contadina o delle tradizioni popolari, sparsi nel territorio abruzzese e nelle altre regioni del centro – sud ma, con le dovute differenze, anche in direzione Nord. 

Non so con esattezza se è nata prima l’idea del museo o quella del libro. Ricordo che durante la prima visita al museo, recentemente trasferitami in zona dalla capitale, ho sentito parlare anche dello scritto proprio dal sindaco in veste di guida. Da sempre interessata alle tradizioni popolari, al mondo agricolo, ai temi dell’antropologia, pur provenendo da studi classici (affrontati da prospettive metodologiche e disciplinari non solo filologiche e, per molti aspetti, più produttive della filologia pura), ricordo di averne letto alcune parti in formato cartaceo, di averne ricevuta una copia digitale, di averne parlato più volte con l’autore. Qualche mese fa, durante una nostra conversazione, mi è venuta l’idea di fare un tentativo con una storica casa editrice di Firenze per avere un parere sul possibile interesse di un’eventuale pubblicazione, senza troppe speranze. Rimasi sorpresa nel ricevere, prontamente, la risposta del direttore che elogiava lo specimen, consigliando di sottoporlo a una casa editrice locale. L’autore, confortato da questo giudizio, ha cercato, e trovato, una soluzione in una piccola casa editrice di Campobasso (fuori regione, tecnicamente, dal 1963 ma, indubbiamente, locale), Regia Edizioni.

Solo nel momento in cui l’ho avuto tra le mani, in farmacia, ho saputo dell’avvenuta pubblicazione. E solo grazie alla pubblicazione che ha coronato il sogno dell’autore e che, per quanto limitata, può garantire la diffusione del  libro, posso parlarne.

Certo, non è un romanzo. Non è un libro destinato al grande pubblico e, probabilmente, non è facile procurarselo. Ma vale la pena leggerlo, per tanti motivi. Perché è la testimonianza in presa diretta di un mondo destinato a scomparire, perché è raccontato con gli occhi dell’autore da bambino, da ragazzo, e, infine, da adulto. Ossia di una persona che, nata nella prima metà del 1900, ha vissuto sulla propria pelle tutte le difficoltà della vita in quei decenni (del tutto simili a quelle di centinaia di anni precedenti) e le trasformazioni dei decenni successivi, fino a oggi. Perché l’autore/testimone ha vissuto queste trasformazioni rendendosi conto che proprio le trasformazioni, pur adeguando lo stile di vita agli standard attuali (l’acqua corrente, il riscaldamento, la luce, i trasporti, ecc.), tagliavano fuori il suo paese dal mondo, in modo definitivo, riducendolo nei fatti a un museo a cielo aperto (fatto di anziani, pochissimi giovani, qualche sparuto bambino). Perché è una testimonianza in presa diretta delle stagioni, dei lavori agricoli stagionali, dei lavori manuali ‘specializzati’ (la tessitura, ad esempio), delle difficoltà della vita quotidiana, della suddivisione dei ruoli, della logica dell’autosufficienza, dell’autoproduzione e dell’economia di scambio, dell’accantonamento delle risorse da una stagione all’altra, di un mondo ‘senza’2, e naturalmente, del contrario di ciascuna di queste voci (dall’abbandono delle campagne all’agricoltura industrializzata; dalla dispensa al supermercato, dalle stagioni al riscaldamento climatico).

Alla luce degli attuali rischi ambientali, dell’emergenza pandemica, dell’omologazione culturale, è un libro importante che merita di essere letto ovunque – insieme ad altri, provenienti da altre realtà locali –, quasi un prontuario per capire cosa ci siamo lasciati alle spalle. Non certo per recuperarlo, ma per acquisire la consapevolezza che, forse, non tutto andava scartato e, soprattutto, non tanto e non troppo velocemente, pena il ritrovarsi con problemi ben più grandi e su scala mondiale da affrontare3

Non ho avuto modo di incontrare l’autore dal giorno in cui ho avuto tra le mani la copia, con dedica, del libro. Gli ho però scritto una mail. A conferma della scarsa connessione che caratterizza le zone interne della penisola, ossia tutte quelle che superano il limite della collina per addentrarsi in zone montagnose, ho ricevuto solo qualche giorno fa la risposta. Mi piace riportarne qui uno stralcio dal quale si ricava la genuinità dell’approccio al tema trattato, della scrittura e delle motivazioni di fondo dello scritto: 

E’ grazie a voi se questo libro è stato pubblicato. Spero vi piaccia la grafica di copertina. Vi prego di scusarmi per gli errori di grammatica e di sintassi e per il limitatissimo uso del congiuntivo (nel dialetto di S. Benedetto, che è la mia prima lingua,  il congiuntivo, il condizionale e persino il futuro praticamente non sono usati) e per gli errori di battitura (me ne stanno indicando parecchi, “quando” per “quanto”, varie “a” che mancano. etc.). Ho dovuto correggermelo da solo il libro. Il problema è che io ho creduto di rileggerlo con gli occhi e pure attentamente, invece il cervello l’ha riletto come lo aveva scritto e quindi gli errori sono passati indenni”.

Inutile dire che, se lo avessi saputo, avrei corretto volentieri le bozze (è una delle cose più complicate da fare quando si scrive per pubblicare. Ricordo ancora come un incubo quando, ancora negli anni novanta, le bozze arrivavano con il corriere e dovevano essere rispedite, sempre via corriere, nel giro di un paio di giorni per non fare saltare la tempistica in casa editrice!). A conti fatti, sono contenta che non me lo abbia chiesto e che, di conseguenza, non abbia avuto modo di correggerle. Non certo perché mi sarei tirata indietro rispetto alla richiesta, ma perché avrei rischiato di correggere troppo, intervenendo in modo improprio – in direzione di una omologazione innaturale – sulla genuinità complessiva del testo che non è scritto in dialetto ma risente di tutte le ‘imprecisioni’ e le inflessioni di chi parla la lingua italiana come seconda lingua. Perché la prima lingua dell’autore è il dialetto (in una regione dove il dialetto è diverso da paese e paese, anche se si trovano a due chilometri di distanza).

 NOTE

1. Il titolo di questo articolo può apparire oscuro. In realtà è il sottotitolo del libro, che l’autore spiega nella prefazione: “Mi è venuto in mente una sera in cui, insieme alle mie sorelle, si raccontava di come vivevamo in paese quando eravamo ragazzi, anzi studenti delle scuole superiori all’Aquila e studenti universitari, almeno io. Ed io osservavo le mie nipoti che facevano fatica a credere a quello che dicevamo e ogni tanto facevano finta di crederci per farci contenti, ridacchiandoci un po’ sopra come a dire: ma che diavolo stanno a raccontare, le stanno sparando grosse enfatizzando ed esagerando i ricordi da ragazzi. Ma quando abbiamo cominciato a parlare del fatto che nelle case l’acqua verso gli anni sessanta è arrivata  ma che nessuna casa o quasi  aveva il bagno, s’intende solo un cesso con almeno una tazza e un lavandino (e casa nostra non l’aveva, aveva il “necessario” ossia una tavola forata dentro una nicchia nel muro della camera di mamma,  che scaricava la cacca dentro il pollaio) e che per i bisogni corporali bisognava ricorrere alle fratte nella buona stagione e alle stalle d’inverno, le ho viste sbiancare, perché si sono rese conto che stavamo parlando di cose serie, di vita vissuta e si vedeva che non riuscivano a capacitarsi, loro nate e vissute nel mondo moderno, che non sapessimo cosa fosse una doccia, cosa fosse il bidet, cosa fosse la privacy (come si dice oggi) et cetera et cetera et cetera”.

2. Ho preso in prestito questa espressione dalla recensione che ho dedicato  a un altro libro sul viaggio in zone del territorio abruzzese senza connessione e oggi completamente spopolate: Ezio Colanzi, Dove tornano le nuvole bianche, UAO edizioni, 2015), pubblicata il 12/11/2020 con il titolo Un mondo “senza” un mondo da ritrovare.

3. La lettura di Calendario. L’anno agrario, civile e religioso. La vita quotidiana di ogni giorno, potrebbe essere abbinata a letture più impegnative, presentate peraltro in forma comprensibilissima. Con ogni probabilità, l’una contribuirebbe a spiegare le altre, chiarendo dal basso, in modo lampante, questioni attinenti al presente e a un futuro ormai prossimo. Penso, in particolare, a D. Meadows, D. Meadows, J. Randers, Oltre i limiti dello sviluppo, Il Saggiatore 1993 (la riproposta aggiornata del primo rapporto al Club di Roma, uscito nel 1972 con il titolo I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Mondadori 1972) e al più recente J. Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni. Rapporto al Club di Roma, Edizioni Ambiente 2013. La lettura combinata di testi così distanti (l’uno frutto di una vita a San Benedetto in Perillis, AQ, l’altro di studi specialistici nell’ambito del MIT, Boston, USA) e diversi (un calendario della vita e dei lavori durante un anno tra fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, da una parte, e il rapporto della ricerca commissionata nel 1968 dal Club di Roma diretto da Aurelio Peccei, dall’altra), rende immediatamente evidente come la situazione attuale e le preoccupazioni per il futuro non siano il risultato imprevedibile degli effetti della crescita ma il risultato della miopia con cui il potere economico e politico ha guardato all’ambiente e all’umanità, diffondendo l’illusione di una distribuzione equilibrata e di una naturale capacità della natura di rigenerarsi, della quale è difficile prendere coscienza e, soprattutto, agli effetti della quale è difficile porre argini.

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