La nonna, l’angolo del cucito e la mania per gli scampoli. 1° parte

Se risalgo indietro nel tempo, ai ricordi di bambina, per capire dove e come è nata la mia mania per gli ‘scampoli’ di tessuto, prende corpo nella mia mente l’angolo del cucito, a casa dei nonni.

Era una sorta di slargo nel corridoio tra la zona giorno e la zona di servizio nella casa di famiglia, ai piedi di una finestra che illuminava la ‘postazione’ della macchina per cucire Singer.

Alle spalle una ‘camera buia’ (tipica delle case disposte attorno a una corte interna), una sorta di ripostiglio, dove la nonna conservava tutto ciò che serve per cucire, riparare, rammendare, ricamare. E, ancora, tutto ciò che, nell’immediato, avanzava o non serviva più (pantaloni, giacche, vecchie tovaglie, ecc.) ma che poteva ancora tornare utile: erano i tempi in cui si rivoltavano i cappotti e i colletti delle camicie! 

C’erano anche i ferri da calza e gli uncinetti, naturalmente, di tutte le misure, ordinatamente riposti in appositi contenitori, ricavati anch’essi da avanzi di tessuto, che ho ereditato e che conservo gelosamente.

C’era poi il cesto con una quantità di gomitoli e gomitolini di tanti colori, anche minuscoli, residui dei completini da bambino, dei maglioni da adulti, dei calzerotti di lana che la nonna ha lavorato per tutti, instancabilmente. 

E c’erano molti numeri della rivista Rakam che ricordo di aver sempre visto in casa (la rivista è nata nel 1929!) e che ho continuato ad acquistare, pervicacemente, fino a quando mi sono dovuta arrendere alla logica degli spazi!

E alcuni della rivista Burda (nata nel 1950), dedicati alla maglia.

Non ricordo di aver visto mai la nonna senza qualche lavoro fra le mani. Per meglio dire: le uniche occasioni in cui non aveva un ago, un ferro da calza o un uncinetto tra le mani, era quando ‘dirigeva’ i lavori in cucina (nel tempo delle marmellate, nel periodo precedente al Natale e alla Pasqua per la preparazione dei dolci tipici), quando si occupava delle sue piante nel circoscritto spazio dedicato all’angolo giardino nella casa di campagna e quando era il momento di raccogliere le erbe spontanee nei campi.

Quante camminata, armate di coltello e di cesto, abbiamo fatto insieme in campagna!

Quella casa non c’è più, ma tutto ciò che racchiudeva è rimasto nella memoria e nel cuore. Indipendentemente dalle scelte che si fanno nella vita e a dispetto del mutare dei tempi che, dagli anni Sessanta fino a oggi, ha trasformato in inutile zavorra le attività consuete e l’idea di una gestione familiare dettata dal risparmio (non buttare niente, riparare e conservare per riutilizzare erano le regole non scritte, tramandate di generazione in generazione), certe cose rimangono dentro. 

Da quel passato ho salvato la macchina per cucire. Ho salvato i contenitori in tessuto per i ferri da calza – nessuno mai ha rivendicato questo genere di oggetti -, l’imparaticcio con i punti di ricamo eseguito con l’aiuto della nonna, alcuni maglioni che sempre la nonna – nel ruolo di bisnonna – realizzò per le mie figlie bambine, completi di ricami a punto maglia, a conferma della durata dei capi fatti a mano!

Ho salvato alcune foto che mantengono vive in me le storie familiari, almeno quelle di cui si parlava (perché di tante altre – la grande guerra, i feriti, i morti, la fine della guerra e tutto quello che è seguito – il nonno, che pure aveva fatto la guerra da ufficiale medico, non amava parlare e non parlava, limitandosi a osservare in silenzio l’evolversi delle cose e invitandoci a trovare un accordo senza violenza, in ogni occasione).

E da quelle foto emerge la foto in bianco e nero della nonna giovane, con un abito chiaro, guarnito di merletti, un grande mazzo di fiori e – immancabile – un grande cappello. Dovrebbe trattarsi di Vicenza, al tempo del matrimonio. Perché il nonno, ufficiale medico, ha incontrato la nonna a Vicenza, nell’ospedale militare allestito in un convento proprio di fronte alla casa di famiglia. Probabilmente, la nonna, diplomata maestra, dava un aiuto, per quel che poteva. L’incontro fu fatale. Il nonno, tornato a casa a Viterbo, prese le redini della casa paterna – il padre venne a mancare poco dopo il suo ritorno, nel 1919 – e di lì a poco torna a Vicenza per sposare la giovane incontrata nell’ospedale militare. Una bella storia, durata una vita, tre figli e tanti nipoti, di cui io sono la più anziana. Una storia che vale la pena raccontare, come tutte le altre storie di questa mescolanza tra luoghi distanti della penisola, con costumi diversi e dialetti con dignità di lingue autonome che a stento permettevano di capirsi ai soldati sul fronte. 

Un giorno, ormai al termine della sua vita, quando spesso si parla più liberamente e, preferibilmente, di cose ormai molto lontane del tempo, la nonna mi confessò della paura che provò al suo arrivo a Viterbo, piccola città non ancora provincia, nell’incontrare le sorelle del nonno, vestite di lunghi abiti fino a terra, completamente neri. E aggiunse, in un filo di voce: ‘avrei voluto fuggire!’.

Il contrasto tre gli abiti chiari con merletti e accessori luminosi, nello stile Anni Venti, che si erano affermati nel Veneto, e gli abiti lunghi e scuri che ancora caratterizzavano le città e le campagne del Lazio, non poteva essere più forte. E posso immaginare i commenti delle zie sulla giovane sposa del fratello che arrivava da un mondo lontano e che peraltro si integrò nella vita della famiglia e nelle tradizioni di famiglia, a dispetto della distanza dal mondo da cui proveniva.

Una storia complicata quella italiana, anche nelle piccole cose, compresa la ‘moda di tutti i giorni’. Le storie di tutti i giorni sono proprio quelle più interessanti per capire quanto e come il mondo è cambiato, lasciando alle spalle l’angolo de cucito, i rattoppi, i colletti rivoltati, le riparazioni, i calzerotti, i maglioni, le sciarpe e i cappucci lavorati ai ferri …

Certo, c’è chi resiste alle mode, c’è chi rivendica il lavoro ai ferri e il cucito come attività funzionali a un mondo meno inquinato ma resistere al mercato e alla moda usa e getta è davvero complicato. Guardare questo, come molti altri aspetti della modernità, con gli occhi della bambina di allora, divenuta ormai nonna, è un buon modo per capire quanto la folle corsa imposta dal progresso e dall’economia (e non solo, perché le ricadute di questi settori si riversano su tutti gli altri aspetti della società) sia rischiosa per l’ambiente e le future generazioni.

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