Dall’album dei ricordi. Appunti per ricostruire la storia

A volte i ricordi tornano a galla con la complicità di fotografie d’altri tempi, un po’ sbiadite, in bianco e nero. Anch’esse reperti, così come le immagini che hanno immortalato e che riemergono nella memoria. Tra queste, una mi ritrae, bambina, in una carrozzina di inizio anni Cinquanta, nell’ampio terrazzo della casa di città dei nonni materni. Un’altra, già più grandicella, su un triciclo decisamente essenziale.

A completare il ricordo, intervengono due disegni in cui la mamma ha catturato con la matita altrettanti scorci del terrazzo di quella stessa casa, qualche anno prima del mio arrivo, quando ancora disegnava e aveva in progetto di dedicarsi all’insegnamento dell’arte. Un bel progetto, naufragato nel nulla (e del quale non ha mai più parlato, neppure di sfuggita). Una bella responsabilità scoprirlo tra le carte, fuori tempo massimo per riparare in qualche modo, se non con la memoria e con il cuore.

Ecco, quel terrazzo e quella casa sono stati una parte del mio mondo. Il terrazzo era il luogo dove la nonna esercitava la sua passione per il giardinaggio, da ottobre a maggio.

Da giugno a fine settembre, a volte anche un po’ oltre, la stessa passione si trasferiva in campagna.

Ero troppo piccola, per ricordarmi del momento in cui la foto fu scattata né ricordo chi scattò quella foto. Il babbo? Il nonno? O forse lo zio materno, quello più giovane. Un giovanotto, si sarebbe detto, allora. Sicuramente avevano una macchina fotografica. Il nonno aveva scattato le foto sul fronte, come medico militare, prima in Libia, poi durante la Prima guerra mondiale. Ma le avrei scoperte solo dopo la sua morte.

Io, bambina, in quella carrozzina, nell’inverno tra il ‘51 e il ‘52, non sapevo niente di quello che esisteva oltre quel terrazzo. Ma la memoria di quel terrazzo e della vista sui dintorni è ben viva nei ricordi. Come tutto il resto della casa. Poco tempo fa, mi è arrivata da una persona di famiglia una mappa disegnata a matita con la richiesta di verificare se la ricostruzione della casa dei nonni fosse corretta. Ho risposto spiegando come intervenire per rimettere a posto gli spazi: le finestre affacciate sulla strada principale, la dispensa. La mappa è perfettamente chiara nella mia memoria. Potrei muovermi a occhi chiusi anche oggi in quella casa, a distanza di alcuni decenni.Ma quella casa non c’è più. O meglio, fisicamente la casa c’è ancora. Quando, raramente, mi capita di passare davanti al portone, il cuore e la mente per un attimo si fermano. L’istinto mi dice di entrare. La ragione mi riporta all’oggi e proseguo. Il ‘groppo’ in cuore persiste e riemerge, anche ora mentre scrivo. 

Da quel terrazzo, si vedeva un piccolo angolo di mondo, molto piccolo perché in realtà si affacciava su una stretta via secondaria. All’angolo tra la via principale e quella secondaria, ricordo un grande spazio vuoto. Era accaduto qualcosa. In luogo di ‘qualcosa’ che prima esisteva, c’era il vuoto. Nei vaghi riferimenti che si facevano in casa, ricorreva una parola: ‘bombardamenti’, senza nessuna aggiunta di particolari. Quella parola – bombardamenti1 – è rimasta così, isolata. Nessuno ha spiegato molto di più. Poi quello spazio vuoto è stato occupato da una costruzione nuova, alta, condita di polemiche cittadine, come sempre accade in questi casi. Qui, il ricordo si fa più chiaro. Perché quella costruzione limitava la vista dal terrazzo, chiudendola definitivamente sulla viuzza sottostante. E questo, naturalmente, disturbava. Non tanto, io credo, per la perdita della prospettiva quanto piuttosto per timore del cambiamento. Perché ciò che andò a riempire quella nuova costruzione era segnale di un cambiamento profondo, senza dubbio.

Non riesco a ricordare l’anno, né riesco a ricostruirlo. Probabilmente sul finire degli anni Cinquanta, più probabilmente all’inizio del nuovo decennio, in quella nuova costruzione, ebbe sede la filiale viterbese di UPIM (Unico Prezzo Italiano Milano). Il primo di negozio aveva aperto nel 1928 a Verona. Nel 1939, erano diventati 36. Una filiale si trovava ad Addis Abeba, un’altra filiale a Tripoli. Erano diventati parte integrante dell’avventura coloniale fascista che proseguiva l’attività di annessione iniziata dai governi della seconda metà del XIX secolo e di inizio XX sec. con l’annessione di Assab e Massaua, e successivamente con la guerra italo-turca, in nome di un’Italia ‘al passo con i tempi’, corredata da colonie (a patto che non disturbassero la politica coloniale inglese, anzi con l’approvazione inglese). 

Queste notizie non fanno parte dei miei ricordi di bambina, non si parlava di queste questioni con i bambini. Ma si ricostruiscono facilmente. Le filiali di UPIM si moltiplicano dall’inizio degli Anni Sessanta, divenendo una presenza costante, dagli anni Sessanta in poi. Era il negozio per gli acquisti in economia della famiglia media. Mentre scrivo cerco di verificare le notizie. Fa parte del mio essere curiosa. Anche se conosco una cosa, quale che sia, vado a verificare. Non mi ero mai posta prima d’ora l’interrogativo su quando fosse stato fondato questo esercizio commerciale né, tantomeno, su come si fosse diffuso moltiplicando le filiali. 

Delle altre, non sapevo niente. Soprattutto non sapevo niente dell’Italia coloniale, se non il ritornello di qualche improbabile canzoncina che, a dispetto dei cambiamenti, si sentiva canticchiare, complice il ritmo orecchiabile. Capita ancora, anche se raramente. 

A me è capitato nei primi anni del nuovo secolo, il XXI (al quale l’umanità si è affacciata definendolo pomposamente ‘millennio’, un piccolo segnale linguistico che denuncia con chiarezza l’acquisizione definitiva di una visione antropocentrica che spesso impedisce di vedere i problemi da un punto di vista diverso). Arrivando a scuola, una mattina, nella mia ultima sede di servizio, a Sulmona, un anziano è passato nella strada deserta sulla sua bicicletta, intonando a voce spiegata ‘Reginella campagnola’. Ricordo di essermi domandata, chissà se conosce l’origine di questo ingenuo omaggio alla terra abruzzese. Il motivetto e le parole della canzone ‘popolare’ (composta nel 1938 C. Bruno ed E. Di Lazzaro) divennero famose grazie alla voce di Carlo Buti che nel 1935 aveva portato al successo ‘Faccetta nera’ la popolarissima canzone di propaganda fascista, in epoca coloniale, composta da Renato Micheli. Naturalmente io bambina non ne sapevo niente. E il contatto con il mondo della canzone era ridottissimo, affidato esclusivamente alla radio. Anche se un canale c’era. Era la governante che soprintendeva alla casa dei nonni e che, nel pomeriggio, una volta rigovernata la cucina, faceva lunghe passeggiate per gli stradelli di campagna, intonando ora questo ora quel motivetto (“Ho un sassolino nella scarpa, ahi …”, “Maramao perché sei morto …”, ecc.). Io la accompagnavo volentieri alla scoperta di quel mondo circoscritto. E, dunque, esisteva anche un contatto tra me e i motivetti in voga dell’epoca. 

Osservo di nuovo la foto di me bambina in carrozzina. Soprattutto, osservo la carrozzina: imponente e ingombrante, con i lineamenti arrotondati. Per vederne di simili oggi bisogna andare nei musei o in negozi di antiquariato specializzati. Mi piacerebbe molto che fosse stata conservata. E, se fosse stata conservata, mi avrebbe fatto molto piacere ereditarla. Nella realtà, non avrei mai saputo dove conservarla. Da inguaribile collezionista, sono tante le cose del passato che mi piacerebbe avere. Per ovvi motivi di spazio, non posso collezionare oggetti grandi. Mi accontento di piccole cose, come le salsiere di porcellana. Assolutamente inutili per gli standard odierni, anche se faccio parte delle persone che fanno la maionese in casa, rifiutandomi di acquistare quelle confezionate in barattoli di vetro, nella migliore delle ipotesi, o, nella peggiore, in contenitori di plastica. Ossia, quelle maionesi dove compaiono più di quattro ingredienti, gli unici indispensabili: tuorlo d’uovo, olio di oliva, sale e limone (le chiare, messe da parte, saranno montate a neve per una delle ricette per me abituali: il dolce di chiare d’uovo). Si tratta di una versione povera delle ciambellone secondo Pellegrino Artusi. La ricetta è la no. XXX di La scienza in cucina e l’arte di mangiar beneche possiedo in una edizione del 1973, un’edizione ‘storica’, per certi aspetti: la casa editrice – Newton Compton Italiana (oggi, Newton Compton Editori) – aveva iniziato l’attività nel 1969 e lanciato agli inizi degli anni Settanta la collana Paperbacks, che includeva anche una sezione Manuali. Il testo in questione è proprio uno dei manuali di quella collana. Un’edizione economica, dunque, perché a quei tempi le mille e trecento lire del prezzo di copertina erano tante (milletrecento lire! Un’occasione per riflettere. È come se oggi si potesse comprare un libro con 0,70 centesimi di euro).

D’altra parte, non ci avrei rinunciato e, dunque, appena ho potuto, l’ho acquistato. Prima di questa copia c’era quella della nonna: usata e riusata, piena di foglietti con gli appunti e di annotazioni, sempre nel cassetto del tavolo in cucina. Oggi è perduta, come tante altre cose, chissà dove e chissà come, ma è parte integrante dei ricordi, come peraltro il volume – imponente – del Talismano della felicità di Ada Boni (1929) – che troneggiava nella cucina della mamma, anch’esso usato e riusato, consunto e scompaginato al punto da essere scomparso, non so quando e come! Altra generazione, altro libro di cucina, altre norme di vita. Peraltro, la mamma, diversamente dalla nonna, non amava cucinare. Forse perché, diversamente dalla nonna, ha dovuto farlo in prima persona per tutta la vita, un pranzo dopo l’altro, una cena dopo l’altra. 

La carrozzina in cui mi vedo ritratta nella foto fa parte di me. In qualche modo deve avere segnato i miei gusti, per certi aspetti decisamente rétro. 

I ricordi sono mondi distanti ma anche molto vivi. Gli anziani sono mancati. La distanza si è fatta incolmabile. La vita è andata avanti. Quei ricordi sono custoditi in profondità nel cuore e nella mente. Oggi recuperarli, collocarli nel tempo e nel periodo storico, indagarli in tutti i risvolti di significato che portano con sé è fondamentale per capire il presente alla luce del passato, troppo spesso liquidato come cosa superata.

Solo alla luce di quel passato è possibile ridefinire e circoscrivere l’idea di progresso che si sta velocemente traducendo in rischi ambientali e umanitari di portata immaginabile per gli addetti ai lavori, inimmaginabile per i tanti che non vogliono vedere. 

POST SCRIPTUM

Le foto e i disegni provengono dall’archivio personale.

Le pubblicità delle macchine fotografiche d’epoca sono ricavate da vecchi numeri di Le Vie d’Italia, il mensile del Touring Club Italiano di cui posseggo alcune copie, salvate dalla casa dei nonni.

  1. La città di Viterbo e i dintorni (in particolare, nei pressi della ferrovia) vennero bombardati più volte nel corso del 1944 dalle truppe alleate nel tentativo di bloccare le truppe tedesche. Nel sito dell’Archivio di Stato di Viterbo si trovano documenti e foto

Un pensiero su “Dall’album dei ricordi. Appunti per ricostruire la storia

  1. Pingback: “Non scendere mai, Fonsina”. Leggendo Simona Baldelli, Alfonsina e la strada, Sellerio 2021 | Libri Sottobraccio

Lascia un commento