Letture (necessariamente) abbinate

Piero Caleffi, Si fa presto e dire fame, Edizioni del Gallo 1954 (Mondadori, 1967) – Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi 1986

Quando ho iniziato a leggere il secondo titolo (I sommersi e i salvati), il primo (Si fa presto e dire fame) era già in lettura avanzata (con un corredo di appunti per segnalare passi particolarmente significativi). L’inevitabile proseguire nella lettura di entrambi (silenziosa del primo, condivisa a voce alta del secondo) ha fatto emergere nel giro di poche pagine una serie impressionante di coincidenze, seppure espresse in forme sostanzialmente diverse. 

Così, le ho appuntate per poterle riesaminare a lettura completata.

Le memorie di Piero Caleffi (1901-1978), arrestato nel 1944 per la sua attività di collegamento tra le formazioni partigiane nell’ambito della missione LAW (il primo incontro tra le truppe alleate e i partigiani in Liguria nel 1943) e deportato a Mauthausen, scritte a dieci anni di distanza e pubblicate per la prima volta già nel 1954, documentano la vita nel Lager in tutta la sua tragica realtà con gli occhi di un uomo che già dalla prima giovinezza aveva partecipato alla vita politica nelle file del Partito d’Azione.

Il suo libro di memorie è stato pubblicato a più riprese tra il 1954 e il 2024 da case editrici diverse (Edizioni del Gallo, dal 1964 Edizioni Avanti!, Mondadori 1967, Mursia 1967).

Ho recuperato l’edizione Mondadori del 1967 tra innumerevoli altri libri – disposti in un ordine decisamente precario – in un negozio dell’usato.

Non lo conoscevo e, al momento dell’acquisto, non ricordavo che l’autore era sottosegretario alla Pubblica Istruzione ai tempi in cui frequentavo il Liceo classico (ossia negli anni della IV legislatura e del III Governo Moro – 23.02.1966 – 24.06.1968 -, formato dalla coalizione politica DC- PSI – PSDI – PRI) né, peraltro, ricordavo che il Ministro della Pubblica istruzione fosse, in quegli anni, Luigi Gui, al quale si deve l’applicazione della norma che prevedeva l’istruzione obbligatoria per 8 anni, fino ai 14 anni d’età, secondo i dettami della Costituzione, a ben quattordici anni dalla sua entrata in vigore: un ritardo sul quale vale la pena riflettere alla luce dell’attualità).

Il secondo titolo – I sommersi e i salvati – è un acquisto recente, nell’edizione Einaudi che risale al 1986. Pur avendo letto di Primo Levi Storie naturali 1966 e Il sistema periodico 1975, (successivamente a Se questo è un uomo e a La tregua 1963), e, ultimamente, a Se non ora, quando? (1982), ho lasciato, non saprei dire quanto consapevolmente, I sommersi e i salvati in disparte. Originariamente era il titolo della prima edizione di Se questo è un uomo (Edizioni De Silva, 1947) di cui costituiva uno dei capitoli e la cui prima edizione Einaudi risale al 1958, a conferma della difficoltà di accettare testi che affrontavano la questione, ancora recente e misconosciuta, del genocidio.

Recentemente, ho sentito che è arrivato il momento, personale e storico, di affrontarlo. Semplicemente, è un libro dal quale non si può prescindere, per capire lo ieri, l’altro ieri e, a maggior ragione, l’oggi. L’edizione che leggo è quella Einaudi con la prefazione di Tzvetan Todorov, la postfazione di Walter Barberis e una nota biografica e critica di Ernesto Ferrero.

L’abbinamento a Si fa presto a dire fame di Piero Caleffi è una questione casuale ma non occasionale. La lettura – e la riflessione sui testi – è stata parte integrante del mio ‘mestiere’. l’insegnamento. Necessariamente, si è concentrata sui classici latini e greci e su testi di critica letteraria ad essi attinenti, naturalmente con divagazioni in altri settori (saggistica e narrativa) variamente collegata all’impegno professionale. Venuta meno questa necessità per questioni anagrafiche, l’interesse si è andato concentrando su questioni decisamente più recenti – sempre con i classici a portata di mano ma con il desiderio prevalente di guardare al presente, decodificandolo con gli strumenti del passato, dall’inizio del Novecento ad oggi.

Se è vero, infatti, che i classici sono fondanti per decodificare – anche – il presente, è altrettanto vero che non sempre è possibile integrarli con letture di opere recenti. Dovrebbe – in realtà – avvenire nell’ambito dello studio delle letterature contemporanee. Troppo spesso, peraltro, le selezioni a fine scolastico sono debitamente (volutamente?) circoscritte a quei testi e quegli autori che si ritiene di far rientrare nel ristretto novero dei ‘classici’. Con il risultato di annullare – o quasi – la consapevolezza sulla storia contemporanea (negli alunni e, troppo spesso, negli insegnanti).

Dunque, della prima metà del Novecento non ho testimonianza diretta. I miei ricordi hanno inizio negli Anni Cinquanta, peraltro ristretti a un mondo circoscritto e protetto. Al decennio successivo risale il mio affacciarsi sul mondo, corrispondente all’ingresso nella scuola media (dal 1962, “unificata”). A parte l’aggiunta del latino alle materie curriculari, i contenuti sono gli stessi, replicati con poche insignificanti integrazioni. Di quegli anni ricordo: il disagio di frequentare la scuola in un luogo estraneo, da estranea, a seguito di trasferimento per questioni familiari, e impegnativo, per questioni storiche di cui non sapevo niente: Trieste; la morte di Kennedy e quella di Papa Giovanni XXIII (ascoltate dall’apparecchio radio che troneggiava sul frigorifero mentre facevo i compiti sul tavolo di cucina). La televisione non era ancora entrata in casa.

Della guerra che aveva preceduto la mia nascita non ho mai sentito parlare né in famiglia né a scuola. Di quella precedente, la ‘prima’, vagamente e raramente, solo perché il nonno materno vi aveva partecipato come medico militare. Ma non ne parlava, se non sollecitato e malvolentieri. L’unico ricordo certo è la raccomandazione di fare attenzione a oggetti potenzialmente pericolosi (ossia, ai residui bellici lungo la ferrovia Roma – Viterbo), durante i vagabondaggi tra campi e stradine di campagna).

Poi, il ginnasio. Da un mio errore nella corretta disposizione cronologica di due sovrani assiro-babilonesi nacque uno scontro tra una ragazzina sperduta in un mondo che l’aveva marginalizzata perché si aspettava che fosse scura di carnagione e bassa (con la mia carnagione chiara e lentigginosa che trasudava qualche lontano antenato normanno!) in quanto proveniente dal meridione (che per me era Roma e il Lazio) e un docente votato allo studio mnemonico che determinò il mio destino futuro di insegnante.

Memore della meccanicità di quei compiti, maniacalmente, sono diventata un’insegnante che ha preparato lezioni su lezioni tentando di instillare negli alunni l’importanza di capire piuttosto che la diffusa tendenza a memorizzare in vista della verifica.

Da quel momento il mondo con cui sono – inevitabilmente – entrata in contatto si è rivelato complesso, spesso indecifrabile, difficile da vivere e da gestire ma anche estremamente interessante. E questo anche grazie ai libri, quelli recenti, quelli appena pubblicati ma anche, già da allora, quelli di cui non avevo sentito mai parlare né a scuola né a casa. 

Oggi, proseguendo quel percorso accidentato, non rinuncio a leggere i testi datati capaci di contribuire a ricostruire un mondo ostinatamente taciuto sia tra le mura di casa, sia a scuola, sia dagli organi di informazione. Di libro in libro, il quadro si fa progressivamente più chiaro e, chiarendosi, mette in luce problematiche mai realmente superate né, tantomeno, elaborate e liquidate.

I due titoli considerati sono, in tal senso, complementari. Affrontano le stesse questioni con modalità diverse di scrittura: memorialistica quella di Piero Caleffi, riflessioni in forma di saggio quella di Primo Levi. La prima redatta a breve distanza dai fatti (come del resto, la scrittura di Levi in Se questo è un uomo), la seconda è il risultato di una riflessione durata quarantadue anni, impressa nella mente e confluita in una densità e profondità di pensiero che lo ha segnato in modo definitivo (la sua drammatica morte è dell’anno successivo).

Al lettore non possono sfuggire certe affinità nell’esame di determinati comportamenti in una situazione di assoluta drammaticità nei torturatori e nei torturati, percepiti, vissuti e segnalati da entrambi gli autori. Leggerli oggi – a distanza di 80 anni dal loro ritorno, rispettivamente, dal Lager di Mauthausen e da quello di Auschwitz – è non solo doveroso ma necessario.

Perché la sopraffazione dei forti di turno, di chi detiene il potere, la ricchezza e gli strumenti per dominare è sempre attiva. 

La ‘disattenzione’, l’ignoranza dei meccanismi messi in atto per dominare, la ‘distrazione’ determinata proprio dagli stessi mezzi messi a disposizione dai potenti è il terreno che lascia spazio all’attuarsi di violenze, di soprusi, di eccidi, in barba alla presunta umanità di cui noi – uomini – ci ammantiamo e di cui andiamo fieri.

Nota a margine

Ho rimediato a una mancanza: nell’edizione di febbraio di C’era una volta (16 e 17 febbraio, Fiera di Cesena) ho scovato La chiave a stella (Einaudi, 1978, 1991) e ora sono alle prese con i racconti del montatore Faussone, con la sua particolare parlata e con impreviste consonanze tra il mestiere di montare e il mestiere di scrivere.

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