Oltre lo sguardo (colpevolmente) miope sul mondo

Originariamente pubblicato in Infodem.it in il 12 dicembre 2021. La versione sottostante è stata in parte modificata.

“Ecologia ed economia derivano entrambe dalla stessa radice – oikos -, la parola greca per indicare la casa nel senso più ampio, dal focolare domestico al lavoro dei campi. Finché l’economia era incentrata sulla gestione di questo ambito, essa riconosceva e rispettava come sue basi i cicli naturali e i confini della loro capacità di rinnovarsi. Si occupava di provvedere ai bisogni umani primari entro i limiti generosi della natura”, Vandana Shiva, introduzione a Massimo Orlandi, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni, padre del biologico, Emi 2014

Quando, nell’ormai lontano 1975, fresca di laurea, sono approdata per la prima volta in un’aula scolastica per una breve supplenza, ho trovato ad attendermi una biscia, accuratamente ospitata in una bottiglia piena di acqua, in bella mostra di sé sulla cattedra.

Gli altri protagonisti – gli alunni – sono entrati alla spicciolata, senza nessuna fretta, dopo una prolungata ricreazione tra cortile e ambiente esterno di quella scuola media sperduta tra periferia e campagna romana.

Trovare una supplente in scrupolosa osservazione della suddetta biscia, deve averli disorientati. Nel silenzio così ottenuto (speravo di ottenerlo, ma non ne avevo nessuna certezza. Se non lo avessi ottenuto forse la mia vita sarebbe stata diversa), ho portato la conversazione sulla biscia (ricordo vagamente di averli convinti a liberarla nel suo ambiente naturale) e ho definito il mio futuro lavorativo.

In quel preciso momento ho iniziato a interrogarmi sul come utilizzare quello che avevo imparato nei quattro anni precedenti all’Università e sul come attrezzarmi per costruire l’armamentario necessario per affrontare una classe, con la consapevolezza (tragica, per certi aspetti) che gli studi fatti andavano sottoposti a un adattamento e a una indispensabile revisione e che la revisione non sarebbe stata cosa facile.

Ero sicura che non avrei abbandonato gli autori classici ma quella che era una semplice intuizione – ossia, che la selezione proposta dagli studi accademici e le modalità con cui confluiva nella scuola non fosse necessariamente la migliore – doveva diventare il mio compito se avessi voluto proseguire il percorso intrapreso con le prime supplenze.

L’intuizione si è trasformata in un impegno pressoché quotidiano che mi portava a soffermarmi sulle parole, sulla loro origine greca o latina, sulla ricerca dei testi da proporre – spesso divergenti da quelli codificati dalla tradizione accademica e da questa confluiti nei programmi (nei quali, c’è il Virgilio dell’Eneide, delle Georgiche e delle Bucoliche ma non il Catone del De agri cultura né Varrone del De re rustica, solo per fare un esempio).

La tradizione dei testi da leggere – consolidata e immutata nella programmazione scolastica – aveva poco a che fare con il mondo in quella fase storica. E non tanto e non solo con il mondo urbano, quanto anche con il mondo già allora in via di spopolamento dei paesi e delle campagne, complice l’industrializzazione delle colture e il diffondersi dell’allevamento intensivo, con tutto il complesso di problematiche che queste realtà portano con sé e che dovrebbero costringere ciascuno a riflettere su cosa compra e cosa mangia (ossia su cosa c’è prima e dietro al prodotto inscatolato e confezionato). 

Oggi, a distanza di anni dall’ultima classe liceale in cui ho affrontato in diretta le problematiche dell’insegnamento – inasprite dalle trasformazioni in tutti i campi all’esterno e dagli interventi, sempre catastroficamente provvisori, nel campo dell’educazione pubblica – la prospettiva acquisita grazie alla biscia intrappolata dai ragazzini di una quasi borgata romana con il fine preciso di ottenere una reazione scomposta da parte del malcapitato supplente, è ancora operativa, anche quando scelgo i libri da leggere.

Ogni libro, idealmente, deve poter essere usato per ragionare sul presente, senza dimenticare chi ha ragionato e scritto sulle medesime questioni duemila anni fa e oltre, in un mondo in cui la presenza umana era indicibilmente meno pervasiva. 

Appartiene senz’altro a questa categoria di libri L’economia della ciambellaSette mosse per pensare come un economista del XXI secolo di Kate Raworth, 2017).

Averlo letto ha contribuito a chiarirmi questioni di fondamentale importanza, dall’economia secondo Senofonte (oiko-nomia, ossia economia della casa, del nucleo familiare) all’economia del villaggio globale basata sul consumo intensivo e indiscriminato e sullo spreco fino alla riconsiderazione dell’economia circolare, tendente a eliminare gli eccessi in tutte le fasi, dalla produzione, al consumo e al riciclo. Per incredibile che possa sembrare, c’è un filo conduttore tra il trattato di Senofonte (V sec. a. C.) e il saggio di Kate Rawort (seconda decade del XXI sec.).

Nel trattato di Senofonte, la donna è l’ago della bilancia dell’economia della casa (gli Ateniesi, portatori di una cultura al maschile, hanno lasciato grandi figure femminili nell’epica e nelle tragedie, donne che si ribellano e si coalizzano in Aristofane e, appunto, la figura dell’economa di Senofonte).

Successivamente, l’economia (delle nazioni) è rimasta appannaggio degli uomini, l’‘economia domestica’ è divenuta materia di insegnamento per le classi femminili (in Inghilterra nel corso del XIX sec., in Italia con la Riforma Gentile, come se l’economia familiare fosse cosa secondaria, insignificante nella gestione della casa, e come se la casa non fosse se non una parte di un insieme più grande strutturato in forma di Stato).

Tra la fine del XX sec. e gli inizi XXI, le donne sono diventate protagoniste anche nel campo degli studi economici e stanno contribuendo a un cambiamento di prospettiva, ormai indispensabile (Kate Raworth è solo un esempio: nel suo libro cita altre autrici non meno significative, alcune delle quali hanno contribuito con i loro studi a definire il suo pensiero economico, tra le altre Ester Duflo, Mariana Mazzuccato, Rebecca Henderson).

D’altra parte, accade anche che i libri, per quanto interessanti e ricchi di suggerimenti per ragionare sulle contraddizioni del presente, possano rimanere lettera morta. 

Se leggo un libro e trovo spunti interessanti per affrontare problemi che sono (o dovrebbero essere) sotto gli occhi di tutti, quanto sarò in grado, scrivendone, di spingere qualcuno a leggerlo e a trarne indicazioni per modificare i propri comportamenti nel quotidiano?

Come non è facile catturare l’attenzione di una classe di adolescenti, non è facile neppure trattenere un potenziale lettore su un articolo che prende le mosse da un libro. Spesso, il potenziale lettore si ferma alla ‘facciata’ (la foto di apertura), forse, legge il titolo, difficilmente va oltre. Ormai, si è abituato a ‘cogliere’ solo lo spot pubblicitario (una immagine e due/tre parole.

Ed è ancora meno facile convincere l’eventuale lettore ad acquistare e leggere il libro in questione.

Potrebbe funzionare ribaltare la prospettiva?

Nel dubbio, provo a proporre qualche esempio.

Stabilito che il sistema economico nel quale siamo immersi, spinge al consumo in modo sconsiderato e senza limiti, chiedo all’eventuale lettore di riflettere agli sprechi – spesso inevitabili -, ai rifiuti – spesso conseguenza inevitabile dei suddetti sprechi -, alla noncuranza con cui ci rendiamo responsabili degli uni (ossia, gli sprechi) e degli altri (i rifiuti). 

Bottiglie di plastica, lattine, confezioni di merendine o caramelle sono testimoni silenziosi, ma ingombrati, presenti ovunque, di acquisti fatti senza pensare alla difficoltà di disfarsi del contenitore né, tantomeno, agli ingredienti del contenuto e ai loro effetti sulla salute. Spesso testimoniano l’estrema noncuranza con cui molti abbandonano lungo la strada i residui di ciò che consumano o utilizzano senza preoccuparsi minimamente del fatto che si tratta di oggetti che rimarranno, per un tempo indefinito, negli angoli, lungo i marciapiedi, alla base degli alberi o delle siepi, incastrati nelle crepe dell’asfalto, dovunque ci sia un appiglio per una bottiglia accartocciata, una lattina schiacciata, una confezione di cartone plastificato.

Chi ha superato la soglia della senectus ciceroniana, ricorda che molti di questi prodotti, negli anni della sua giovinezza, non c’erano o, se c’erano, erano ‘naturalmente’ razionati.

Difficilmente un ragazzino aveva a disposizione soldi per una bottiglia di una qualche bevanda analcolica, le merendine erano di là dall’essere una consuetudine (la merenda consisteva in una fetta di pane con un velo di marmellata, una spolverata di zucchero o un filo d’olio). I più giovani, ormai abituati a questi prodotti, e i figli dei più giovani, non percepiscono questo aspetto, apparentemente secondario, dell’affermarsi dell’economia basata su prodotti allettanti, variopinti e, soprattutto, capaci di creare dipendenza e di ‘semplificare’ la vita (la merendina si apre e si mangia, la carta si butta; la fetta di pane si deve tagliare, spalmare; le molliche si devono raccogliere, ecc.).

Lo stesso scenario si ripropone per ogni acquisto. Le confezioni sono colorate, voluminose e includono spesso materiali compositi e difficilmente riciclabili. La presa di coscienza per una diversa concezione economica – l’‘economia della ciambella’ – deve passare per questa consapevolezza.

Laddove il libro può apparire ostico (ma non lo è, realmente), il passa parola sui comportamenti da adottare dovrebbe divenire l’impegno di ciascuno di noi.

Ognuno, nei suoi dintorni, può attivare un comportamento rispettoso dell’ambiente.

Tutti insieme si può invertire la rotta e, perché no, costringere chi produce, impacchetta e mette sul mercato a modificare le modalità correnti. 

Ma, entrambe le strategie, a distanza di soli quattro anni dal momento in cui queste riflessioni sono nate, sono diventate utopiche in un mondo che tende a perdere memoria, affidandosi a ciarlatani di professione, capaci solo di arricchirsi e di porsi alla guida di interi popoli affascinati dalla ricchezza e da promesse di cui non capiscono la sostanziale infondatezza né, tantomeno, intuiscono le catastrofiche conseguenze.

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