Leggendo Rosetta Loy, La parola ebreo, Einaudi 1997

L’autrice di La parola ebreo, Rosetta Loy, è nata il 15 maggio 1931 ed è mancata nel 2022.

Pubblica La parola ebreo nel 1997, a sessantasei anni, quando ha al suo attivo già numerose altre pubblicazioni.

Il titolo – La parola ebreo – può trarre in inganno, quasi fosse un saggio di argomento linguistico. 

In realtà, è molto più di un ‘semplice’ saggio. È un saggio che prende le mosse dall’autobiografia dell’autrice che, superata la soglia della ciceroniana senectus (fissata a sessanta anni), rivive la sua giovinezza con lo sguardo adulto per trarne anche i ricordi più scomodi, quelli sulle domande rimaste senza risposta, sulle cose non dette, sorvolate sbrigativamente, rimaste sospese, volutamente abbandonate per passare rapidamente ad altro discorso, da parte dei genitori, delle governanti, delle insegnanti (nella maggior parte dei casi, suore). 

La narrazione ha inizio con i ricordi dei primissimi anni (“Questa sono io nell’inverno del 1936” … “Ma prima di tornare alla bambina sulla seggiolina azzurra intenta a guardare fuori dalla finestra, vorrei per un momento volgermi indietro e ricominciare da quando quella bambina è nata nell’anno IX dell’Era Fascista, in via Flaminia 21 …” pp. 7-8), sottoposti alla volontà della bambina di allora, ormai adulta, che decide di sottoporli al vaglio del tempo trascorso, della consapevolezza raggiunta e della necessità di sottoporre i ricordi – spesso impressioni sfumate, oltre che dal riserbo degli adulti su questioni accennate e mai affrontate direttamente, dal vago senso di mistero che la bambina ne ha ricavato – al vaglio della documentazione prodotta nel tempo (e contenuta nell’ampia nota finale in cui l’autrice illustra puntualmente le fonti e la bibliografia utilizzata).

La famiglia – cattolica – vive a Roma, è benestante, non aderisce al fascismo e non prende posizione contro le leggi razziali pur vivendo in un ambiente – quello romano – in cui gli ebrei sono in molti casi presenti dai tempi dei tempi e dunque ‘più romani dei romani’. 

I ricordi dell’infanzia, peraltro, sedimentano con il passare del tempo, pronti a riemergere (a volte, basta una parola, un profumo, un volto, un interrogativo …) e, quando capita, difficilmente escono dalla mente, diventando l’occasione per interrogarsi, riordinare, indagare e – finalmente – comprendere cosa si è perduto lungo il cammino della storia personale che inevitabilmente ha incrociato la Storia.

Da questa ‘metabolizzazione’ dei ricordi e, soprattutto, dei silenzi che hanno costellato quei ricordi è nata la necessità di integrarli. Dunque ai ricordi di bambina si aggiungono la documentazione, le letture, le riflessioni su ciò che è stato e che riemerge nei ricordi confusi, nei ‘non detti’, nelle allusioni, rimasti indelebili nella bambina di allora e nella donna matura che li riprende, per ‘decodificarli’, riorganizzarli e cercare di capire, finalmente.

Un libro come questo è, oggi, indispensabile perché colma un vuoto di informazione diffuso e colpevole. È un libro da leggere senza pregiudizi, senza remore e senza esitazioni.

È un libro per tutti, a partire dalla scuola superiore dove la Storia del ‘900 è il fanalino di coda della disciplina laddove dovrebbe contribuire alla coscienza civica e politica (dal greco polis = tutto ciò che riguarda la comunità).

È un libro che può contribuire a formare cittadini consapevoli piuttosto che consumatori accaniti.

Ed ha un vantaggio, rispetto ad altri altrettanto indispensabili, è ancora regolarmente in circolazione nonostante l’ultima edizione Einaudi risalga al 2018.

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