Giunti quasi alla fine del 2025 e, per chi scrive, ben oltre la senectus ciceroniana (fissata ai sessanta anni, per quei tempi, un bel traguardo!), arriva prepotente la necessità di riesaminare il passato da una prospettiva diversa rispetto a quella elaborata e perseguita nei decenni di vita lavorativa, spesa nell’insegnamento di materie classiche, nella convinzione che i testi dell’antichità greca e romana contenessero – in nuce – elementi fondanti per decodificare il presente. E, in particolare, che ciò si potesse ottenere grazie ad una scelta di passi funzionali a capire le origini e lo sviluppo di questioni ancora attuali, già a partire dal lessico ( … ). Peraltro, farlo a partire dalla metà degli Anni Settanta, ha complicato incredibilmente le questioni con una accelerazione che le istituzioni e le forze politiche non hanno saputo cogliere e che, di conseguenza, i cittadini non hanno saputo né cogliere né fronteggiare né, tantomeno, attrezzarsi per comprenderne e difendersi.
Oggi la situazione – nazionale e internazionale – è tale da costringerci a ‘ripensare’ la situazione a partire dalla fine della seconda guerra e di farlo riconsiderando gli scritti e il pensiero di chi ha vissuto quei momenti al fine di chiarire come e perché risultati che dovrebbero essere stati acquisiti – al punto da divenire pratica quotidiana – si sono arenati miseramente, in tutti i campi e, in particolare, nella scuola che dovrebbe essere l’istituzione fondante per trasmettere e attivare nei giovani i principi democratici che scaturiscono chiaramente dalla carta costituzionale, mettendo i giovani e i cittadini di oggi al riparo dai rischi dell’intolleranza e del sopruso in ogni campo, dalla vita privata a quella collettiva.
Offro quindi, a partire da alcune parole chiave, una selezione bibliografica, filmografica e antologica relativa al periodo trattato.
PAROLE CHIAVE
- Democrazia
- Politica
- Rispetto
- Solidarietà
- Educazione
- Cooperazione
- Collaborazione
- Storia / memoria storica
- Ambiente / educazione ambientale
- Informazione
- Studio > lettura, ricerca, scuola / lavoro
- Impegno sociale / civile
- Formazione civile (individuale e collettiva)
- Cultura / Formazione culturale (individuale e collettiva)
- Inclusione
- Integrazione
- Tolleranza
- Partecipazione (senza mai dimenticare di essere parte della società, quella piccola e quella grande)
- Diritti
- Parità /Uguaglianza
- Salute pubblica / Prevenzione
BIBLIOGRAFIA SULLA RESISTENZA (e dintorni)
“Un fatto significativo è che i risultati già raggiunti della letteratura della Resistenza, li abbiamo in opere di poca mole, poesie e racconti, sicché il libro letterario più rappresentativo della Resistenza non potrebb’essere altro che un’antologia. Si direbbe che siano la canzone partigiana e la storia partigiana raccontata, i due prodotti poetici di tradizione popolare e orale, che abbian dato vita e linfa ai migliori di questi componimenti” da Italo Calvino, La letteratura italiana sulla resistenza, 1949 https://www.reteparri.it/wp-content/uploads/ic/RAV0068570_1949_1-3_06.pdf
Luigi Sturzo, Pensiero antifascista, 1926, 2013
Carlo Rosselli, La guerra che torna, 1933
Piero Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Le Monnier 1935, 1954; Ponte alle Grazie, 1989
Carlo Rosselli, Oggi in Spagna, domani in Italia, 1936, Alba ed. 2021
Romano Bilenchi, Conservatorio di Santa Teresa, Vallecchi 1940, 1972, Rizzoli 1985,
Garzanti 1991, Rizzoli 2001, 2006, Mondadori 2014, Rizzoli 2018
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Bompiani, 1941
Natalia Ginzburg, La strada che va in città, come Alessandra Tornimparte, Torino, Einaudi, 1942; La strada che va in città e altri racconti, Roma, Einaudi, 1945
Giorgio Caproni, Cronistoria, Firenze, Vallecchi, 1943
Giorgio Caproni, Racconti partigiani (1943), Garzanti 2025
Franco Fortini, Foglio di via e altri versi, Einaudi 1945
Davide Lajolo (Ulisse), Classe 1912, 1945 in Il voltagabbana, Milano, Il Saggiatore, 1963.
Elio Vittorini, Uomini e no, Bompiani 1945
Arrigo Benedetti, Paura all’alba, Documento, Libraio Editore 1945 (disegno di Guttuso in copertina), Il Saggiatore 1964, La Nuova Italia 1975, Baldini & Castoldi 1995
Vitaliano Brancati, Il vecchio con gli stivali, Roma, L’Acquario, 1945, Bompiani 1949, Passigli 2025
Nino Berrini, Il villaggio messo a fuoco, Istituto Grafico Bertello 1945
Barbara Allason, Memorie di un antifascista, Edizioni U (Collezione Giustizia e Libertà) 1945, Librisaggi 1960, Graphot 2008
Emilio Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Einaudi 1945, 1965, 2014; Mondadori 1967
Oreste Del Buono, Racconto d’inverno, 1945, Minimum Fax 2019
Salvatore Quasimodo, Col piede straniero sul cuore, Bompiani 1946
Carlo Bernari, Prologo alle tenebre, Mondadori 1946
Amedeo Ugolini, Uno come gli altri, Einaudi, Torino, 1946
Stefano Terra, Rancore, Einaudi 1946
Ezio Taddei, Rotaia, Einaudi 1946
Cesare Pavese, Feria d’agosto, Einaudi 1946, 2021
Giovanni Germanetto, Memorie di un barbiere, Editori Riuniti 1946
Vincenzo Chianini, Gli Unni in Toscana, Vallecchi 1946
Luciano Bolis, Il mio granello di sabbia, Einaudi 1946
Natalia Ginzburg, È stato così, Torino, Einaudi, 1947
Alfonso Gatto, Il capo sulla neve. Liriche della resistenza, 1947, Fondazione Alfonso Gatto 2012
Angelo del Boca, Dentro mi è nato l’uomo, Einaudi, 1947; a c. di Mimmo Franzinelli, Mondadori 2015
Iris Origo, Guerra in Val d’Orcia. Diario 1943-1944, 1947, 1949, Le Balze 2000
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, Einaudi 1948
Cesare Pavese, La casa in collina, Einaudi, 1948, 2020
Angelo Del Boca, L’anno del giubileo, Einaudi 1948
Guido Seborga, L’uomo di Camporosso, Mondadori 1948
Antonio Greppi, I poveri fanno la storia, Mondadori 1948
Lauro de Bosis, Storia della mia morte (Histoire de ma mort, 1931), Passigli, 1948, 2009
Italo Calvino, La letteratura italiana sulla resistenza, 1949
Italo Calvino, Ultimo viene il corvo, 1949, Einaudi
Anselmo Marabini, Prime lotte socialiste. Lontani ricordi di un vecchio militante, Edizioni Rinascita 1949
Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, 1950, Garzanti 2021
Antonio Greppi, Il bravo ragazzo, Ceschina 1951
Luisa Sturani, Antologia della Resistenza, Torino 1951
Tommaso Fiore, Un popolo di formiche, Bari, Laterza, [1951], 2001
Arturo Colombi, Pagine di storia del movimento operaio, Edizioni di Cultura Sociale, 1951
Robert Eisler, Uomo diventa lupo, 1951, Medusa 2010, Adelphi 2019
Raffaele Pettazzoni, Italia religiosa, Laterza 1952, Mimesis 2020
Ignazio Silone Una manciata di more, 1952, Mondadori 2018
Mario Giovana, Tempo di Europa 1943 -1945, Einaudi, 1952
Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi 1953, 1964, 1975
Dante Livio Bianco, Guerra partigiana. Raccolta di scritti, a cura di g. Agosti – F. Venturi, Einaudi 1953, 1954; Guerra partigiana, a cura di Nuto Revelli – Norberto Bobbio, Einaudi 2020
Renato Carli Ballola, 1953 Processo Parri, Ceschina, Firenze 1954
P. Calamandrei, Il processo s’agapò. Dall’Arcadia a Peschiera, a c. di R. Renzi e G. Aristarco, Laterza 1954
Giampiero Carocci, Il campo degli ufficiali, Einaudi 1954
Tommaso Fiore, Il cafone all’inferno, Einaudi, 1955
Roberto Battaglia – Giuseppe Garritano, Breve storia della Resistenza italiana, Einaudi 1955
Gaetano Salvemini – Ernesto Rossi – Piero Calamandrei, Non mollare (1925). Riproduzione fotografica, La Nuova Italia, 1955
Ada Gobetti, Diario partigiano. Torino, Einaudi, 1956, 1972 e 1996
Piero Caleffi – Albe Steiner, Pensaci, uomo!, Feltrinelli 1960
AA.VV., Lezioni sull’antifascismo, a c. di Piergiovanni Permoli, Laterza 1960
Gianni Toti, Il tempo libero, Editori Riuniti 1961, 1975
Anton S. Makarenko, Consigli ai genitori, Roma, Editori Riuniti 1961
Anton S. Makarenko, Il mestiere di genitore, 2 voll., Roma, 1961 (è il I vol. del Libro per i genitori, scritto nel 1936 e rimasto incompiuto rispetto all’intenzione originaria in quattro volumi)
Franco Catalano, L’ Italia dalla dittatura alla democrazia 1919 – 1948, Feltrinelli, 1962, 1970
Roberto Battaglia, La seconda guerra mondiale, Editori Riuniti 1962
Renzo Zorzi, Cinquecento quintali di sale, Feltrinelli, 1962, ripubblicato con un altro racconto con il titolo L’estate del ’42, Rusconi, 1988.
Mario Giovana, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN piemontese, Feltrinelli 1962
Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, 1963, Mondadori 2021
Franca Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia. 1848 – 1892, Einaudi 1963
Mario Elia, Il silenzio dei giovani, Editrice internazionale arte e scienza 1963
Luigi Preti, Giovinezza, giovinezza, Mondadori 1964
Mario Giovana, Storia di una formazione partigiana, Einaudi 1964
Luigi Meneghello, I piccoli maestri, 1964, Rizzoli 2013
Angelo Del Boca – Mario Giovana, I figli del sole. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli 1964
Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Laterza 1966
Mario Giovana, Le nuove camicie nere, Edizioni dell’albero,1966
Bino Sanminiatelli, Quasi un uomo, Rizzoli, 1968
Gaetano Salvemini, Lettere dall’America 1947/1949, Laterza 1968
Alfassio Grimaldi, Il re “buono”, Feltrinelli 1970
Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Einaudi 1970
G.B. Canevari, Ponte rotto, Genova / Giovanni Battista (Lazagna), Ponte Rotto – La Lotta al Fascismo dalla Cospirazione all’Insurrezione Armata, Sapere 1972
Enzo Santarelli, Il nazifascismo in Europa e la resistenza, 1967; Storia del fascismo, 3 voll. 1972
Marina Addis Saba, Gioventù Italiana del Littorio. la stampa dei giovani nella stampa dei giovani nella guerra fascista, Prefazione di Ugoberto Alfassio Grimaldi, Feltrinelli 1973
Luciano Bolis, Il mio granello di sabbia, Einaudi 1973, 2020
Giovanni Arpino, Le mille e una Italia, Einaudi 1973
Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), (a cura di) Piero Malvezzi, Giovanni Pirelli, Einaudi 1973, 1989, 2015
U. Alfassio Grimaldi – G. Bozzetti, Dieci giugno 1940 il giorno della follia, 1974
Alfassio Grimaldi, Il re “buono”, Feltrinelli 1970
Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino, Prefazione Giancarlo Pajetta, Editori Riuniti 1975
Costituzione italiana, Introduzione di Giangiulio Ambrosini, Einaudi 1975 (8° ed.)
Piero Meldini, Reazionaria – Antologia della cultura di destra in Italia 1900-1973, Guaraldi, 1975
Maria Antonietta Macciocchi, La donna “nera”. Consenso femminile e fascismo, Milano, Feltrinelli, 1976
G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976
E. Vittorini, Gli anni del “Politecnico”. Lettere 1945-1951, Torino, Einaudi, 1977
Bianca Guidetti Serra, Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile vol 1, Einaudi 1977
Piero Calamandrei, Uomini e città della Resistenza. Discorsi, Scritti ed Epigrafi, Laterza 1977
Sergio Solmi, Poesie 1924 – 1972, Mondadori 1978
Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, Einaudi 1997
Alfassio Grimaldi – Marina Addis Saba, Cultura a passo romano. Storia e strategie dei littoriali della cultura e dell’arte, Feltrinelli 1983
Rosella Isidori Frasca, … e il Duce le volle sportive, Patron 1983
Romano Bilenchi, Cronache degli anni neri, Editori Riuniti 1984
Giovanni Rocca, Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Edizioni «Art pro Arte», 1984
Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza, Einaudi 1985
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi 1986
La corporazione delle donne (a c. di Marina Addis Saba), Vallecchi 1988
Mario Giovana, Guerriglia e mondo contadino i garibaldini nelle Langhe 1943-1945, Nuova Universale Cappelli 1988
Anna Amendola, La mia guerra. 1940-1945: peripezie, avventure, fatti e misfatti degli italiani raccontati da loro stessi, Leonardo 1990
Marcello Venturi, Sdraiati sulla linea, Mondadori 1991, lampi di stampa 2011
AA.VV, Donna lombarda, Franco Angeli 1992
Ugo Pirro, Celluloide, Einaudi 1993
Lauro de Bosis, Storia della mia morte: il volo antifascista su Roma, a cura di Alessandro Cortese De Bosis, Mancosu edizioni, 1995
Lauro de Bosis, La religione della libertà e altre conferenze americane su Europa e umanismo, con in appendice le lettere inedite a Benedetto Croce, a cura di Rosalia Peluso, Firenze, Le Lettere, 2020
Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli 1997
La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz,
C. Saletti (a cura di), Marsilio, 1999
Graziana Pentich, Opere 1947-1979. Colori e segni dell’esistere, a c. di Luigi Lambertini, Bora 1999
La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz, C. Saletti (a cura di), Marsilio, 1999
Ulderico Munzi, Donne di Salò, Sperling & Kupfer 2001
Beppe Fenoglio, Appunti partigiani, Einaudi 2002
Alberto Asor Rosa, L’alba di un nuovo mondo, Einaudi 2002
Pietro Cavallo – Pasquale Iaccio, Vincere! Fascismo e società italiana nelle canzoni e nelle riviste di varietà (1935-1943), Liguori 2003
Elisa Springer, L’eco del silenzio. La Shoah raccontata ai giovani, Marsilio 2003
Nuto Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Einaudi 2003
Marina Addis Saba, La scelta. Ragazze partigiane, ragazze di Salò, Editori Riuniti 2005
Mario Giovana, Giustizia e Libertà in Italia. Profilo di una cospirazione antifascista 1929-1937, Bollati Boringhieri 2005
Paul Ginsborg, La democrazia che non c’è, Einaudi 2006
Graziana Pentich, Dove saremo un giorno a ricordare. Itinerari con Alfonso Gatto, A. Stella – R. Vetrugno (a cura di), Interlinea 2009
Carlo Rosselli, Socialismo liberale, John Rosselli (a cura di), 2009
Bianca Guidetti Serra – Santina Mobiglia, Bianca La Rossa, Einaudi 2009
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Newton Compton Editori 2010
Eleonora Selvi, Maria Antonietta Macciocchi. L’intellettuale eretica, Aracne 2012
Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Rizzoli 2013
Giulio Questi, Uomini e comandanti, Einaudi 2014
Guido Miglioli, Una storia e un’idea, Edizioni di Storia e Letteratura 2015
Giorgio Caproni, Sulla poesia, Italo Svevo 2016
Marcello Venturi, Via Gorkij 8 interno 106, Lindau 2016
Penso che un sogno così non ritorni mai più. L’Italia del miracolo tra storia, cinema, musica e televisione, Liguori 2016
Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, a cura di Alessandro Portelli, Donzelli Editore 2017
Daniele Aristarco, Lettere a una dodicenne sul fascismo di ieri e di oggi, Einaudi 2019
Luigi Ciotti, Lettera a un razzista del terzo millennio, Gruppo Abele 2019
Elisa Springer, Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione, Marsilio 2019
Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Tea 2019, 2025
Franco Fortini, I cani del Sinai, Centro studi Franco Fortini, Quodlibet 2020
Kuliscioff, Il monopolio dell’uomo, 1890, Ortica 2020
Paolo Berizzi, L’educazione di un fascista, Feltrinelli 2020
Dionigi Galvagno, Il pane e la neve, Miraggi Edizioni 2020
Chimamanda Ngozi Adichie, Il pericolo di un’unica storia, Einaudi 2020
Cesare Pavese Il compagno, Einaudi 1947, 2021
Angelo Stella, Un giorno, a ricordare. Per Graziana Pentich, 2021
Beppe Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi 1952, 2022
Bell Hooks, Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi 2022
Toby Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi 2022
Bell Hooks, Insegnare il pensiero critico. Saggezza pratica, Meltemi 2023
Ghebreyesus Hailu, L’ascaro. Una storia anticoloniale, 1927, Tamu 2023
Giorgio Caproni, Registri di classe, Garzanti 2023
Lisa Giua Foa, Momenti magici. Scritti e interviste, Una città 2023
Eric Gobetti, I carnefici del Duce, Laterza 2023
Ignazio Silone, Il segreto di Luca, 1956, Mondadori 2023
Mahmood Mamdani, Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi 2023
Lorenzo Tosa – Paolo Paticchio, Il treno della memoria. In viaggio per diventare i testimoni di domani, De Agostini, 2025
Davide Lajolo, Il voltagabbana, Editrice Tipografia Baima-Ronchetti, 2025
Giorgio Caproni, Racconti partigiani, Garzanti 2025
SCRITTI DI E SU ADA GOBETTI
- Dai quattro ai sedici anni. Guida ai libri per ragazzi, Torino, Edizioni del Giornale dei genitori, 1960.
- Cinque bambini e tre mondi, Torino, SAIE, 1953
- Diario partigiano, Einaudi 1956, 2021
- Non lasciamoli soli. Consigli ai genitori per l’educazione dei figli, Torino, La cittadella, 1958.
- Storia del gallo Sebastiano ovverosia Il tredicesimo uovo, Torino, Einaudi, 1963.
- Vivere insieme. Corso di educazione civica, Torino, Loescher, 1967.
- Educare per emancipare. Scritti pedagogici 1953-1968, Manduria, Lacaita, 1982.
- Pedagogia partigiana, Il nuovo melangolo 2025
- Non siete soli. Scritti da «il Giornale dei genitori» (1958-1968), Colibrì Edizioni 2018
- M. Cristina Leuzzi, Ada Gobetti e l’educazione alla democrazia, ibrisaggi198
- M. Cristina Leuzzi, Alfabetizzazione nazionale e identità civile, Anicia, 2012
FILMOGRAFIA (in fieri)
- Roma città aperta, Regia Roberto Rossellini, soggetto Alberto Consiglio 1945
- Giorni di gloria – Film documentario, Regia di Luchino Visconti 1946
- Due lettere anonime, Regia: Mario Camerini 1945
- Paisà, Regia di Roberto Rossellini 1946)
- Germania anno zero, 1948, Regia Roberto Rossellini 1948
- Anni difficili, Regia Luigi Zampa, soggetto Vitaliano Brancati 1948
- Ladri di biciclette, Regia: Vittorio De Sica 1948
- Guardie e ladri, Steno – Mario Monicelli 1951
- Totò e i re di Roma (E poi dice che uno …), Steno – Mario Monicelli 1952
- Don Camillo, Regia: Julien Duvivier 1952
- Anni facili, Regia Luigi Zampa, soggetto Vitaliano Brancati 1953
- Il ritorno di Don Camillo, Regia: Julien Duvivier 1953
- Pane, amore e fantasia, Regia: Luigi Comencini 1953
- Gli sbandati, Regia: Francesco Maselli 1955
- I sette contadini, Regia di Elio Petri – cortometraggio 1958
- Tutti a casa, Regia: Luigi Comencini 1960
- All’armi, siam fascisti!, documentario co-diretto con Cecilia Mangini e Lino Micciché (1962), nacque in seno alle proteste anti-fasciste per l’adesione alla coalizione di governo del Movimento Sociale Italiano. Realizzato con materiali d’archivio provenienti dai cinquant’anni precedenti (1911-1961), il film è un found footage che racconta il fascismo e i suoi elementi di continuità nel dopoguerra.
- L’arte di arrangiarsi, Regia: Luigi Zampa, soggetto Vitaliano Brancati 1954
- La lunga notte del 43, Regia: Florestano Vancini 1960
- Il gobbo, Regia: Carlo Lizzani 1960
- La vendetta di Ercole, Regia: Vittorio Cottafavi, 1960
- Un giorno da leoni, Regia: Nanni Loy 1961
- Il federale, Regia: Luciano Salce 1961
- Una vita difficile, Regia: Dino Risi 1961
- Le quattro giornate di Napoli, Regia: Nanni Loy 1962
- La marcia su Roma, Regia: Dino Risi 1962
- La ragazza di Bube, Regia: Luigi Comencini 1963
- Il compagno Don Camillo, Regia: Luigi Comencini 1963
- Il sole sorge ancora, Regia: Aldo Vergaro 1964
- I cento cavalieri, Regia: Vittorio Cottafavi 1964
- Se sei vivo spara, Regia: Giulio Questi 1967
- I 7 fratelli Cervi, Regia: Gianni Puccini 1968
- Amarcord, Regia: Federico Fellini 1973
- C’eravamo tanto amati, Regia: Ettore Scola 1974
- L’Agnese va a morire, Regia: Giuliano Montaldo 1976
- Una giornata particolare, Regia: Ettore Scola 1977
- In nome del papa re, Regia: Luigi Magni 1977
- La notte di San Lorenzo, Regia: Paolo e Vittorio Taviani 1982
- I piccoli maestri, Regia: Daniele Lucchetti; Soggetto: Luigi Meneghello1997
- Il partigiano Johnny, Regia: Guido Chiesa 2000
- C’è ancora domani, Regia: Paola Cortellesi 2023
Documentazione:
Ugo Pirro, Celluloide, Rizzoli 1983, Einaudi 1995
Alberto Crespi, Storia d’Italia in 15 film, Laterza 2018
Fiamma Lussana, Cinema educatore. L’istituto luce dal fascismo alla liberazione (1924-1945), Carocci 2018
ANTOLOGIA DI BREVI TESTI
- Nuto Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Einaudi 2003 (dal Cap. nono, La liberazione di Cuneo e il dopo-Liberazione)
… Dopo i grandi entusiasmi dell’immediato dopo – Liberazione i partigiani non sono più di “moda”.
I fascisti, più o meno camuffati, fiutano l’aria, sentono la situazione, e ricominciano ad alzare la testa. Ho sempre in mente quel Bartolomeo Garro, uno dei miei testimoni de Il mondo dei vinti. Questo povero Cristo era stato fucilato il 2 febbraio 1945 a San Benigno di Cuneo, assieme ad altri 13. Fucilato, colpito al torace e caduto giù con gli altri morti. Poi è passato Frezza, il comandante di questo plotone della polizia che aveva compiuto la rappresaglia, e gli ha tirato il colpo di grazia passandogli da parte a parte la bocca e il cranio. Comunque si è salvato. Questo povero diavolo, un anno dopo, incontra in Cuneo vecchia, davanti al Bar Nigra – che era un po’ il bar del mercato – uno di quelli del plotone di esecuzione. Gli urla: “Vagabondo, disgraziato …” È questo qua gli dice: “Attento! Perché io ti rifilo una querela che te ne accorgi finché vivi. Quel che è stato è stato. Io sono stato prosciolto. Cosa vuoi da me?”. […] Lo stato democratico è rinato su fondazioni fasciste. La burocrazia è rimasta quella di prima. La cosiddetta “epurazione” si risolve in una beffa. Epurano gli straccetti, quelli che non contano nulla.Incominciano i processi ai criminali fascisti. Si processano i vari Brachetti, Pocar, Ferrari, Salvi, i più feroci torturatori, i peggiori assassini. Noi, i partigiani, assistiamo ad alcuni di questi processi della Corte di Assise Straordinaria. E ci rendiamo conto che le molte condannano all’ergastolo non verranno mai scontate. È già nell’aria l’amnistia Togliatti. Solo Ettore Salvi, ex comandante della polizia e della Littorio a borgo San Dalmazzo, pagherà con la vita le sue colpe orrende. Ma ne aveva combinate di cotte e di crude. Verrà fucilato in 12 febbraio 1946, al poligono di Cuneo. L’unico. Gli altri staranno in galera due – tre anni, poi usciranno liberi. Brachetti era un ufficiale della Forestale, e mi hanno detto che gli hanno ricostruito la carriera ed è andato in pensione da generale. Questo è uno dei responsabili dell’uccisione di Duccio Galimberti. I fascisti, dunque, rialzano la testa, e incominciano le denunce contro i partigiani. È normale, se il clima era quello! Su questo tema ci sarebbe da fare un lunghissimo discorso. Dico soltanto che Livio Bianco e Piero Calamandrei sono tra i più attivi nella difesa dei partigiani e nel difendere i valori della Resistenza poi, alla scomparsa di Livio Bianchi e Piero Calamandrei, a Cuneo comincerà il turno dei Dino Giacosa e Faustino Dal Mazzo a doverci difendere dalle querele dei fascisti. Ma è un’altra storia.[…] Sono i tempi in cui nell’esercito il processo di restaurazione galoppa. Nelle file del nuovo esercito è più gradito un fascista che un partigiano, che un sospetto comunista. Altro che nuovo esercito nato dalla Resistenza, nato dalla lotta di Liberazione!Poi la fine degli anni Quaranta, l’inizio degli anni Cinquanta, con le lotte operaie sempre più aspre, più difensive, più disperate. Con la polizia di Scelba che picchia sodo, che non perdona.Vorrei concludere con un accenno al nostro impegno antifascista, che inizia subito, nell’immediato dopo-Liberazione, e che è vivo ancora oggi.Quando è nato il Msi siamo insorti e le cronache di quei tempi registrano le nostre proteste, anche energiche, contro quella vergogna.Il primo comizio del Msi a Cuneo risale al 1948. Arriva un forestiero, un certo Abelli, con due o tre dei suoi scagnozzi. In piazza Galimberti sale su un tavolino, e incomincia a parlare. Dopo dieci minuti è sparito Abelli, è sparito il tavolino: e il problema è risolto.Nel 1951 arriva Almirante a Cuneo, con un gruppetto di fascisti. Vorrebbe parlare sulla piazzetta del municipio. È costretto a scappare, protetto da cinque colpi di pistola. Sul corso Gesso alcuni partigiani lo fermano, lo bloccano, e vogliono buttarlo giù dall’altopiano. È Ettore Rosa che protegge Almirante, che lo salva.Nel 1956 Almirante ritorna a Cuneo, questa volta con duecento dei suoi, decisi a tutto. Ma succede il finimondo.Nel 1958 altro tentativo di comizio fascista. Questa volta arriva a Cuneo in generale Emilio Battisti, ex comandante della “Cuneense”. Anche Battisti non riesce a parlare, malgrado sia protetto da un battaglione della “Celere” giunto da Padova, e da altre ingenti forze di carabinieri di polizia. In piazza Torino sono presenti migliaia di cuneesi che affrontano la polizia, che non temono né le manganellate, né gli idranti, né i gas lacrimogeni. In piazza c’erano forse 3000 persone di tutti i ceti sociali, compreso una parte di familiari di dispersi della guerra di Russia. Un po’ tutti prendiamo botte dalla polizia. Ricordo Dino Giacosa con il viso insanguinato, in mezzo a quella baraonda: è come se lo vedessi adesso.Poi il luglio 1960, l’insurrezione di Genova, che segna la caduta del “governo Tambroni”. Anche da Cuneo siamo accorsi a Genova, a dare man forte alla gente che si scrollava dalle spalle i fascisti che avevano organizzato lì il Congresso nazionale del Msi.I fascisti tenteranno altri comizi a Cuneo. E se riusciranno a parlare, parleranno soltanto grazie alle imponenti forze di polizia, messi lì a proteggerli.La situazione di oggi. Le cinque stragi impunite, le cinque stragi nere*, delle quali continuiamo a non saperne nulla, devono invitarci a riflettere!E concludo. Perché ho accolto l’invito dell’amico Giorgio Rochat a raccontare quegli anni terribili? Perché ho voluto rivivere il mio fascismo, la mia guerra fascista, la mia guerra partigiana? Perché credo nei giovani. Perché voglio che i giovani sappiano.
* Il 12 dicembre 1969, alla Banca nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, una bomba provoca la morte di 17 persone e il ferimento di 88; il 17 maggio 1973, una bomba contro la questura di Milano è lanciata da Gianfranco Bertoli, che si dichiara anarchico. Rimangono uccise quattro persone. Bertoli risulterà poi collegato con i servizi segreti e legato alla organizzazione di estrema destra “Rosa dei venti”; il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia, a Brescia, durante una manifestazione sindacale, esplode una bomba che uccide 8 persone; il 4 agosto dello stesso anno la strage dell’Italicus, l’espresso Roma-Monaco, provoca a San Benedetto Val di Sambro (Bologna) la morte di 12 persone e il ferimento di altre 48; il 2 agosto 1980, alla stazione di Bologna esplode una bomba: muoiono 85 persone, 200 rimangono ferite.
- Piero Calamandrei, Discorso sulla Costituzione, 26 gennaio 1955
Il discorso fu pronunciato da Piero Calamandrei nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria il 26 gennaio 1955 in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi per illustrare, in modo accessibile e a tutti, i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra vita associativa. Per inaugurare il corso fu chiamato Piero Calamandrei, docente, avvocato, scrittore, politico, tra gli esponenti di “Giustizia e Libertà”, collaborò a movimenti clandestini durante la Resistenza e partecipò, come rappresentante del Partito d’Azione, alla Costituente.
“L’articolo 34 della Costituzione dice: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». È compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi! È stato detto giustamente che le costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito, è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato. Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’articolo 3 vi dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana», riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente. 3 Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è – non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani – una malattia dei giovani. «La politica è una brutta cosa», «che me ne importa della politica»: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: «Ma siamo in pericolo?», e questo dice: «Se continua questo mare, il bastimento tra mezz’ora affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, tra mezz’ora il bastimento affonda!». Quello dice: «Che me ne importa, non è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica. È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi di politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica. La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità d’uomo. Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946: questo popolo che da 25 anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori – il caos, la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi. Ricordo – io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui – queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese. Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto – questa è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo. Ora, vedete – io ho poco altro da dirvi –, in questa costituzione (…) c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo, nell’articolo 2, «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», o quando leggo, nell’articolo 11, «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie, dico: ma questo è Mazzini, questa è la voce di Mazzini; o quando io leggo, nell’articolo 8, «tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour; o quando io leggo, nell’articolo 5, «la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo; o quando, nell’articolo 52, io leggo, a proposito delle forze armate, «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo, all’articolo 27, «non è ammessa la pena di morte», ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione”.
- Giovanni Arpino, Le mille e una Italia, Einaudi 1960, 1973
Cap. XXII Dove Riccio, entrando nella Valle d’Aosta, fa conoscenza di Piero Gobetti e di tanti altri illustri ammalati di “febbre della Verità”.
Riccio sapeva poco di montagne, e la Valle d’Aosta gli parve subito un grande e rispettabile imbuto.
Il Monte Bianco era lassù, dove l’imbuto s’allargava maggiormente, e le sue grandi vene bianche e blu splendevano nel sole.
Trote guizzavano nelle acque trasparenti dei torrenti, falchi e corvi volavano in cielo, dai piccoli prati saltavano odori d’erba falciata, dalle vigne apparivano, tra i filari, brevi e massicce colonne di pietra e cemento, a sostegno delle viti.
Riccio non aveva toccato neppure una mela dal cestino.
Aveva più fretta che fame, più ansia ad andare che stanchezza. L’aria di montagna lo spingeva su leggero, lungo quella strada che saliva in mille curve al Monte Bianco.
Lietamente attraversò gruppi di case e paesini, vide montanari spingere mucche al pascolo, altri agitare il latte in grande recipienti, di dove sarebbe uscito il formaggio fontina. E arrivò a Aosta. Ma neppure qui volle sostare, e uscì di città. Finché la vista della torre lo fermò.
A chi abitava in quella torre avrebbe dovuto consegnare il cestino di mele del professore: imboccò quindi un sentierino da capre, coperto d’erbe, che certamente nessuno aveva più percorso da anni.
La torta la torre era isolata, alta e grigia su un cucuzzolo con merli e feritoie come una fortezza.
Giunto lassù, Riccio vide che era anche circondata da un largo fosso: mancava il ponte levatoio e ogni attraversamento pareva impossibile.
– Ehi, – gridò allora per avvertire di chi stava al riparo di quelle mura silenziose.
Ma gli risposero solo gli echi diversi della valle.
– Ehi, – gridò più forte, portando le mani a imbuto ai lati della bocca.
Ma da merli e feritoie uscirono soltanto corvi e falchi.
A un terzo richiamo, finalmente, il cigolante portone s’aprì.
Ne uscì un uomo giovane, molto alto, molto magro, che si avvicinò fino al limite del fosso, a sette o otto passi da riccio. Aveva capelli con riflessi rossi, un lieto sorriso sulle labbra, camicia e abiti in disordine.
“Se ti chiami Piero, queste sono mele che ti manda il professor Gramsci”, disse Riccio.
“Sì, sono Piero. Piero Gobetti, – rispose allegramente in giovane: – grazie. Ma queste mele me le dovrai tirare una per volta. Io cercherò di coglierle al volo. Perché, come vedi non puoi venire fino a me, e io non posso raggiungere la tua sponda”.
“Sei in prigione?”. Domandò riccio di stirando la prima mela.
“No, – rise il giovane scuotendo i lunghi capelli: – questa non è una vera prigione. È la Torre del Lebbroso. Una volta, tanto tempo fa, i valligiani, chiudevano qui dentro chi si ammalava di lebbra. Lo nutrivano gettandogli cibo oltre i merli, avevano pietà del malato, ma soprattutto avevano paura del contagio. Così, chiudendolo nella Torre, lo eliminavano dalla società e si preservavano dalla malattia”.
“E sei tu il malato, oggi?”, Domandò Riccio lanciando un’altra mela che il giovane Gobbetti colse abilmente al volo.
“No, – gli spiego l’altro: – O forse sì. Sai, i tempi sono cambiati, molte malattie, come la lebbra, sono scomparse. Ma ne sono rimaste altre. E la gente ne ha paura come in passato ebbe paura della lebbra. Anch’io sono un malato”.
“E che malattia hai?”. Domandò Riccio.
“Sono stato contagiato dalla Verità, che è la più grande delle malattie, quella che fa scappare tutti gli uomini, – raccontò Gobetti: – chi ha questo morbo in corpo desta milioni di sospetti nella gente, e finisce inevitabilmente per vivere isolato. Tutti noi, nella Torre, abbiamo i bacilli di questo male, e la società ci ha allontanato perché ci temeva, perché temeva che con la nostra presenza tra gli uomini il contagio si sarebbe diffuso in modo irrimediabile”.
“Allora non sei solo, altri abitano con te” – fece Riccio.
“Solo? Macché: siamo in tanti, una bellissima compagnia, – rise il giovane: – discutiamo, coltiviamo un orto, alleviamo polli e conigli. E aspettiamo. Aspettiamo che la gente si accorga che il nostro non è un male, ma un bene, e che, come tutti i beni, è difficile da conquistare, ma è cosa lieta e dolce, poi mantenere costante. Il nostro prefetto lo conoscerai certo di nome, è nientemeno che Cristoforo Colombo, il navigatore”.
“Anche lui è ammalato di verità?” – Domandò Riccio lanciando oltre il fosso l’ultima mela.
“È stato il malato più grave di tutti, – raccontò Gobetti: – Ancora adesso lui lamenta l’ignoranza dei principi italiani, che non vollero aiutarlo a attraversare gli oceani. Pensa un po’: dovette andare da un signore forestiero. E oggi l’italiano, che è una piccola lingua, sarebbe invece parlato nelle Americhe, se le tre caravelle del nostro maestro Colombo fossero state di un signore di Genova, o di Pisa, o di Venezia. Nella nostra comunità, oltreché prefetto, Colombo cura anche l’amministrazione”.
“E quali altri grandi nomi abitano lì dentro? – Domandò ancora Riccio, attentissimo.
Ora, scambiatesi le mele, stavano rispettivamente seduti ciascuno sulla propria sponda e chiacchieravano nel grande silenzio della valle, rotto ogni tanto dallo strido di un uccello lontano. “C’è un poeta. Anche di questo saprai qualcosa. È il grande Giacomo Leopardi. Si occupa della nostra biblioteca e cura l’allevamento delle api. Adesso le città d’Italia gli hanno intitolato strade e piazze, anche se non lo conoscono bene: ai suoi tempi lo ignorarono del tutto, persino i più begli ingegni suoi contemporanei non videro il suo alto valore. È un uomo molto spiritoso, che tace in compagnia, finché non prende a conversare in modo brillantissimo, ironico e allegro. Altri membri della nostra comunità sono Cattaneo, Mazzini, Salvemini. Cattaneo ha organizzato benissimo il nostro allevamento di conigli, di modo che abbiamo carne fresca tutti i giorni. Salvemini è qui da poco, deve ambientarsi. Per ora, lui che è uno storico, si interessa degli archivi della Torre. Sono migliaia e migliaia di carte, in cui è raccolta la storia di quelli che passarono tra queste mura, anch’essi ammalati di Verità, anch’essi respinti dalla società che li temeva. Mazzini passa il suo tempo, quando non chiacchieriamo insieme, a tentare uno strano esperimento: cerca di addomesticare le marmotte. Sostiene che un allevamento di marmotte ci potrebbe fornire grasso e pelliccia per la brutta stagione, che nella Torre è sempre piuttosto dura da superare. Lo lasciamo fare: in fin dei conti non è escluso che riesca in questo tentativo. Finora, però, le marmotte non hanno appreso neppur uno dei suoi insegnamenti.
“E tu… tu, chi sei? – Domandò infine Riccio vergognandosi non poco della sua ignoranza.
“Eh, io, – sorrise Gobetti: – sono il guardiano della Torre. Non è un gran lavoro, perché le visite sono assai rare.
“Ma come hai preso la malattia della Verità?” – Insisté Riccio.
“È lungo da spiegare, – gli rispose in giovane: – ti basti questo: quando, tanti anni fa scrissi che l’industria, per progredire, per diventare moderna, doveva considerare non solo i problemi tecnici del lavoro, ma anche quelli del lavoratore, dell’operaio, e aggiunsi che solo con un operaio più moderno, più libero, più cosciente dei suoi diritti, il mondo della produzione avrebbe potuto svilupparsi veramente, be’, allora fui subito giudicato. Mi dichiararono affetto dal morbo della Verità e finii di corsa nella Torre. La società è pigra, ma quando deve difendersi da noi, malati di Verità, si sbriga in quattro e quattr’otto caro mio. Be’, mangiamoci una mela”.
E rilanciò un frutto a Riccio. Insieme addentarono e masticarono silenziosi.
Poi Gobetti vide che Riccio era serio e volle rallegrarlo.
“Non preoccuparti, – gli disse: – noi qui ci divertiamo molto, lo sai? Salvemini, che non perde mai il buon umore, appena arrivato qui ha subito organizzato un gioco, una specie di lotteria. Noi conosciamo il mondo che ci circonda, è il vantaggio che ci viene dall’essere tanto ammalati di Verità, come ben puoi capire. Ebbene: alla nostra lotteria, tutte le settimane, puntiamo su certe persone. Chi sostiene che si ammaleranno come noi e verranno presto a tenerci compagnia, chi sostiene il contrario. Secondo certi calcoli tra un po’ qui saremo allo stretto, perché gli infetti, nel mondo, aumentano di giorno in giorno. Molti hanno appena preso il bacillo, moltissimi sono ai primi stadi della febbre che la Verità procura, ma il morbo dilaga, dilaga, dilaga. Noi siamo severissimi nel giudicare la febbre falsa e passeggera da quella autentica. Ma vediamo che il contagio si espande. Così ci divertiamo a trarre profezie, a giocare su certe persone, che paiono particolarmente ammalate, già destinate alla Torre. Alle volte qualcuna, per timore d’essere scoperta dalla società, che è assai severa e sospettosa, finge d’essere sana. Questo manda in bestia Salvemini, che vorrebbe vedere il morbo diffondersi presto. Ma, come ti ho detto, lui è arrivato da poco, è impaziente. Noi, che siamo qui da tanto tempo, sappiamo aspettare senza irritarsi troppo. Colombo, poi, è veramente un maestro in fatto di pazienza. Subito dopo lui, viene Leopardi. Ma non voglio trattenerti tanto, hai ancora molto cammino”.
“Chissà se anch’io mi ammalerò” – disse Riccio.
“Eh, ho idea di sì. I giovani, oggi, sono assai disposti a prendere la febbre della verità. Però, visto che ci sono, lascia che ti dica una cosa: quando tutti voi, oggi ragazzi, sarete ben ammalati, e la febbre della verità vi batterà altissima nelle vene, siate accorti: non chiudete tutti noi dentro il bei marmi, non incidete i nostri nomi nelle lapidi. È il rimedio già usato dalla società. Tutti noi, infatti, siamo pubblicamente onorati anche oggi. Ma è solo un’astuta bugia. No, quando la Verità vi darà scosse al sangue e alla ragione, siate calmi, non mummificateci agli angoli delle strade o con inutili statue al centro delle piazze. Portateci con voi, a scuola, al caffè, nei libri, nelle conversazioni, nell’allegria delle vostre serate. Perché solo lì saremo ancora vivi, solo così potremo tenervi compagnia. Ricordati di questo: e ora va, prima che scenda il buio. Proseguendo diritto arriverai al Monte Bianco”.
Detto questo, con un ultimo saluto Gobetti rientro nella torre e il cigolante portone venne richiuso.
Riccio riprese il sentiero e raggiunse la strada maestra.
Il cielo diventava più cupo, la notte non era lontana. Ma il ragazzo non volle fermarsi e per due ore ancora si spinse avanti, passo dopo passo, finché il Monte Bianco gli fu davanti, con mille colori nelle sue altissime cime ancora scolpite dal sole scomparsogli alle spalle.
C’era una grande distesa pietrosa, e ogni pietra, Riccio pensò, doveva essere stata estratta dal buco dei minatori. Qua e là erano macchine arrugginitesi nel lavoro all’interno della grande montagna, erano baracche di legno, assi, sacchi di cemento, picconi. Ma non si vedeva persona. A lungo Riccio giro dall’una all’altra baracca, sempre avvicinandosi al buco nero del traforo, un buco che pareva la sorgente stessa della notte.
“Che vuoi, ragazzo” – lo fermò un uomo con l’elmetto da minatore in testa.
E dall’accento Riccio capì che quell’uomo era siciliano come lui.
“Ti accompagnerò io da tuo padre” – gli rispose il minatore quando Riccio gli ebbe spiegato la ragione della sua presenza. E insieme scavalcarono la distesa di pietre ammonticchiate, girarono tra casupole di legno, di dove venivano, ora, voci e canti d’uomini.
Era buio, dalla grande montagna scendeva un cupo vento notturno, le casupole parevano tremare e scricchiolare al cospetto delle Alpi sterminate. Riccio sentiva qualcosa allo stomaco. Ma non era solo fame, era anche allegria, e paura e commozione, tutte insieme in un gran nodo che con la fame gli ronzavano dentro.
“Deve essere qui” – fece il minatore e spalancò la porta di una baracca.
Dentro, grande e nero era suo padre. Ricciolo vide e insieme risero, insieme rimasero abbracciati stretti, insieme si guardarono senza parlare, poi parlando tutti e due, di furia, l’uno in faccia all’altro. Finché, con una gran risata, si calmarono. L’uomo tira fuori salame formaggio e volle che per l’occasione Riccio bevesse pure un mezzo bicchiere di vino.
“Ah, che viaggio hai fatto, figlio mio”, – sospirava contento l’uomo guardando Riccio mangiare: – “fammi vedere le scarpe”.
E Riccio alzo i piedi.
“Sono bell’andate, lo sospettavo. Domani le aggiusterò. Adesso andiamo a dormire”, – disse poi indicando due brande poste a castello l’una sopra all’altra: – “tu sotto, io sopra”.
Sì coricarono, l’uomo spense la lampada.
Nel silenzio udivano il vento delle Alpi fischiare e mordere tra le fessure della baracca.
“Ah, figlio mio, che viaggio hai fatto, – sospirava l’uomo: – chissà tua madre come sarà in pensiero! Domani le manderemo una cartolina.
Riccio non disse nulla. Aveva sonno, ma era anche agitato e nella memoria gli si confondevano figure e nomi, avventure e parole, notti e giorni e camminate. Che ne era, ormai, di tanti briganti e Machiavelli e lupi, di tanti santi, baroni, birboni, poveri, matti?
Intanto il padre sospettava che Riccio stesse coricato a occhi aperti. Gli disse allora: “Dormi, domani parleremo. Adesso riposa”. E allungò una mano. Riccio nel buio sentì le dita dure e callose del padre cercare le sue, quasi volessero proteggerlo e aiutarlo a dormire. Ma Riccio non riusciva a prender sonno. Dopo un po’ sentì il respiro dell’uomo, pesante, e capì che la stanchezza aveva ben chiuso gli occhi del padre.
Allora, cautamente, uscì dalle coperte, si avvoltolò dentro una mantella, a tentoni cerco la porta della baracca, sgusciò nella notte.
Il vento ruggiva correndo dai picchi del Monte Bianco verso la valle, le stelle tremavano in certi laghi del cielo aperti tra le nuvole, le ombre nere dei pini fischiavano piegandosi agli assalti del vento.
E di nuovo Riccio vide l’Italia.
Non era più la sirena verde, verdolina, rosa, come gli era apparsa dalla caverna del Ciclope dove l’aveva condotto Pirandello. Non era più la sirena punteggiata di perle e lumini.
Ora appariva una terra lunga, nera, dove si alzavano voci e parole, voci di donne e bambini, di uomini e vecchi, parole sparse che si rincorrevano nell’aria, un gran frastuono di vocaboli, accenti, esclamazioni. Era una terra nera di velluto e le voci la coprivano tutta. Ogni voce raccontava qualcosa, forse una storia, forse una favola, e a milioni le storie e le favole si incrociavano, si confondevano come le gocce del mare si uniscono e fondono in una grande ondata schiumosa.
Riccio avrebbe voluto gridare: “Voglio capirvi ! Fatevi sentire uno alla volta!”
Ma non riusciva a far parola, non sapeva come e a chi rivolgersi, non sapeva se lo avrebbero potuto udire davvero.
Così se ne restava immobile, al freddo, stretto nella mantella, davanti a quel mistero, al concerto di voci che correva ondulando su quella terra nera di velluto, in cui tutti i Pulcinella, tutti i baroni, i Ruzante, tutti i Burchiello, i Galileo, buoni e cattivi, parlavano insieme, insieme si lamentavano, insieme pareva ridessero e piangessero, felici e disperati tutto in una volta, e bisognosi di compagnia, di aiuto, di rispetto.
Non devo dimenticare tutto quello che ho visto, si disse Riccio, mentre il vento fischiava sempre più forte. Poi s’avviò verso la baracca, battendo i denti fu di nuovo tra le coperte.
Cercava ancora di pensare, di ricordare, si sforzava a immaginare non più solo la maschera del Pulcinella di Napoli, ma anche le maschere di tutti i Pulcinella sparsi su quella lunga terra nera, e le barbe di tutti i Michelangelo, e i fucili di tutti i briganti …
Finì per addormentarsi. Entrò lentamente in un lungo sonno senza sogni da cui lo tirò fuori, l’indomani mattina, la voce del padre.
- Un discorso sulla Costituzione, Cap. VII in Ada Gobetti, Pedagogia Partigiana, Il melangolo 2025 (articolo tratto da ll giornale dei genitori,1960
“La costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. Perché si muova bisogna metterci dentro ogni giorno il combustibile: e cioè la volontà, l’impegno, la speranza”. È questo il nucleo del bellissimo nobile discorso pronunciato da Piero Calamandrei il 26 gennaio 1955 nel salone della Società Umanitaria di Milano, come introduzione a sette conferenze sulla costituzione italiana tenute per iniziativa di un gruppo di studenti universitari e medi.
La costituzione – disse il grande giurista – è una conquista in cui ritroviamo tutto il nostro glorioso passato di italiani, in cui possiamo risentire le voci lontane, e pur vive e attuali, dei nostri uomini più grandi: Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Una conquista che dobbiamo al sacrificio di tanti combattenti caduti durante la Resistenza per riscattare la libertà e la dignità, un testamento che han lasciato centomila morti.
Ma, come tutte le conquiste non è definitiva; e occorre continuamente vigilare perché non sia menomata e distrutta, perché non ci venga nuovamente tolta la libertà, quella libertà che è come l’aria, e di cui si intende pienamente il valore soltanto quando incomincia a mancare. Questa continua vigilanza si svolge dando ogni giorno il proprio contributo alla vita politica, con coscienza chiara e precisa, con democratica volontà.
E non basta difenderla, la costituzione: bisogna farla vivere. Oggi essa è solo in parte una realtà; in parte rimane ancora una promessa, una speranza, un lavoro da compiere. E alla polemica contro il passato recente, contro il caduto regime, si accompagna in essa la polemica contro il presente, contro l’ordinamento sociale attuale.
“È compito della Repubblica – dice l’articolo 3 della Costituzione – rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale Paese”. Il che significa dare lavoro a tutti, una giusta retribuzione a tutti, la scuola a tutti, a tutti dignità di uomo. Eppure sappiamo come nella realtà italiana di oggi ancora esistono purtroppo milioni di disoccupati e milioni di analfabeti e semianalfabeti. Sta ai cittadini, specialmente ai giovani, non solo difendere gli ormai classici e tradizionali “diritti di libertà” ma adoperarsi con tutte le proprie forze per tradurre nella realtà pratica anche i nuovi “diritti sociali”, l’affermazione di solidarietà umana che la Costituzione contiene. Il disco con l’incisione del discorso, edito ora dalla Cetra, ci permette non solo di riudire la voce di Calamandrei – quella voce al tempo stessa severa e suadente, arguta e appassionata, che per tanti anni suonò con impareggiabile efficacia al Parlamento, nelle piazze, nelle aule – ma anche di sentire le reazioni dei giovani in ascolto: di quei giovani che dovranno considerare la Costituzione come cosa propria e prepararsi a farla vivere non mantenendola immobile, come un qualsiasi pezzo di carta, ma intendendone il valore di via verso l’avvenire.
- Antonio Greppi, La coscienza in pace. Cinquant’anni di socialismo, Ed. Avanti! 1963
Avanti, compagni! (dal capitolo conclusivo)
… Il lungo racconto volge alla fine.
Più di mezzo secolo di storia mia e del socialismo, così come l’ho visto nel mio tempo e nel mio mondo. La vera, grande, passione della mia vita!
Ho già avuto occasione di dirlo; l’avvocato, lo scrittore, l’uomo se ne sono sempre andati insieme, nella buona e nella cattiva avventura, con una piccola bussola ideale nel cuore. E sulla bussola era scritta questa sola, magica, parola: “socialismo”.
Né qualcuno se ne meraviglierà, anche se professi altre idee, purché legga senza preconcetti queste pagine, scritte con purezza di cuore.
Ma è giusto che io dica qui, anche se possa sembrare una confidenza ormai superflua, che le cose migliori le ho imparate dai compagni. E non di rado dai più umili.
Ma forse non tutti, al di fuori della nostra grande famiglia, sanno cosa significhi veramente quest’altra parola, che ha, anch’essa, una sua cara, umanissima magia.
Lasciamolo dire al compagno Castorina con la sua comunicativa di giovane, ardentissimo, siciliano.
Egli si era appena laureato in lettere e sentiva il ragionevole desiderio di fare qualche cosa per i più miseri e sfruttati dei suoi compaesani. E da sincero credente, qual era, si iscrisse alla Sezione locale della Democrazia Cristiana. Ma subito si trovò scontento e spaesato in un ambiente ben diverso da come l’aveva supposto; dominato da pochi notabili e da qualche prete facile agli intrallazzi. Quando gli accadde di assistere, con un amico socialista, ad un comizio del nostro Partito, alla periferia di Catania.
Il grande circolo era gremito di gente e l’oratore, che aveva un bel viso aperto e cordiale, esordì con un appellativo che gli era nuovo e che istantaneamente mosse qualche cosa nel suo cuore.
“Compagni!” aveva detto l’oratore, e spesso lo ripeteva con affabile semplicità. E tutti sembravano contenti di quella confidenza che li faceva sentire più fraternamente buoni. Tutti, anche l’ospite occasionale.
Fu così che, tornando nell’ambiente di prima, egli si trovò più sperduto che mai. Né tardò, naturalmente, a chiedere la tessera del Partito socialista e a diventare compagno anche lui. Senza cessare per questo d’essere credente.
Essere compagni, sì; ma non soltanto per un fatto sentimentale, seppure così felicemente interiore.
Come delicate le premure, talvolta, e come espansivamente spirituali! Premure di operai, di contadini, che non di rado si sono arrampicati, con chi sa quale fatica, sino al limite della terza elementare.
Quanti anni sono passati da quella sera che, avvicinandomi alla piccola tribuna eretta ai piedi del campanile, massiccio come una torre, di San Vito al Tagliamento, mi sono sentito venire incontro, come in un soffio melodico, le note di una famosa sinfonia?
“È una trasmissione e radiofonica?” domandai, fingendo di non aver capito, al Sindaco “lavoratore”, che mi stava davanti.
“La radio non c’entra”, fu la risposta un poco amareggiata del compagno. “E’ un disco della nostra Sezione”.
A San Vito al Tagliamento, piccola città friulana, predisponevano lo stato d’animo degli ascoltatori, per un comizio socialista, con la Quinta di Beethoven. E io, guardando con immensa commozione l’infinito del cielo, avevo l’impressione di vederlo brillare di una primizia inedita di stelle.
Ma chi potrebbe cancellare dalla mia memoria la giornata di San Pietro in Bagno, sull’Appennino tosco-emiliano? Quattro o cinque anni fa, credo.
Era un pomeriggio d’ultimo inverno e da poco aveva cessato di nevicare. La macchina della Federazione di Forlì saliva per la grande strada, a tornanti, verso il Passo del Carnaio, a più di mille metri sul livello del mare. Sull’asfalto non erano rimaste che poche tracce di neve.
“Veramente esemplari”, dissi al compagno Servadei che mi sedeva accanto, “i servizi logistici della vostra provincia!”. Ma il compagno sorrideva con un sottinteso che conosceva lui solo. “La provincia c’entra sino ad un certo punto”, rispose. E subito incominciò a parlare di altre cose.
A cento metri dal valico ci apparve un grosso spazzaneve motorizzato, che rapidamente si spostò sul ciglio della strada. Era scortato da tre uomini con giacca a vento e il cappuccio dei marinai del Nord. “Benvenuto, compagno!” gridarono insieme, quando la macchina fu a portata della loro voce.
“I servizi logistici, questa volta, sono del Partito”, disse Servadei, come a sciogliere il piccolo enigma di poco fa. “La Provincia non ci ha messo che lo spazzaneve”.
Tre giovani compagni erano, e avevano lavorato dalle prime ore del mattino. Il loro viso splendeva di sudore e di soddisfazione. Ci fermammo per stringere loro la mano. Rimpiangevano di non poter partecipare al comizio; ma la fedeltà alla parola, innanzitutto. E si erano impegnati a restituire lo spazzaneve in giornata.
Poche settimane dopo ero a Pavullo nel Frignano. Prima che io prendessi la parola, si fece al microfono un ragazzo di quindici o sedici anni. Un bel viso aveva, dolce e caparbio, e portava i pantaloni di fustagno, alla montanara, e scarponi da sci.
“I giovani compagni del Frignano al padre di ‘Mariolino’”, disse con meravigliosa semplicità. E mi allungava un mazzo di fiori di montagna, colti da lui.
Allora io lo strinsi a lungo sul cuore e non mi ero mai sentito più orgogliosamente socialista. Quando ci guardammo, avevamo gli occhi pieni di lacrime, tutti e due.
E ora avanti, compagni! Vecchio, è pur sempre giovanissimo socialismo, avanti.
Nè ammette la mia inflessibile coerenza ideale ch’io chieda qualche cosa per me. Ma questo vorrei: che si trovasse nelle mie pagine, specialmente dai giovani, un minimo di ispirazione.
E non certo per i miei pochissimi meriti, ma per gli atti di fede, di abnegazione e d’eroismo che in esse sono ricordati. E tutti comprendono come io pensi con una più interiore commozione al sacrificio del mio figliuolo, “temerario”, anche lui, “nel coraggio”, che “si fece”, anche lui, “volontario della morte”.
Ma anche vorrei che tutti, al di sopra di ogni differenza d’età e di ideologia, pur che siano uomini onesti, si domandassero che cosa sarebbe accaduto nel nostro paese se il socialismo, di fronte all’incomprensione di troppi benpensanti e a quel clima di guerra santa di allora, avesse rinunziato alla lotta e alla propria missione.
Forse che o non aveva scritto Leone XIII, nell’Enciclica Rerum novarum, ha ben fosche tinte, delle smisurate fortune di pochi, di “salari di fame”, di “logoranti condizioni di lavoro”, di un’”economia orribilmente dura, inesorabile e crudele”?
E non è forse vero che solo nel 1919 sorgeva il movimento politico organizzato del mondo cattolico, con l’integrazione dei sindacati bianchi, e che non prima del 1921 s’affacciava alla lotta il Partito comunista, staccandosi dal vecchio tronco del nostro Partito?
Sì, incontestabilmente, anch’io, come tutti i compagni degni di questo attributo bellissimo e sacro, anch’io come Camillo Prampolini, caro maestro, ho la coscienza in pace.
E guardando davanti a me, vedo farsi sempre più sereno l’avvenire. Sereno, non facile, perché guai agli uomini se la vita cessasse di essere la battaglia campale dei loro ideali e la prova del fuoco della loro fede e della loro virtù.
Avanti compagni! Sta per finire, dopo secoli e secoli, il tempo della grande paura. È incominciato quello della grande speranza.
Quanto a me lasciate che richiami qui, a memoria, con una fedeltà che vuol riscattare il peccato d’orgoglio, l’altissimo messaggio che Filippo Turati, dall’esilio, trasmise ai compagni, pochi mesi prima della morte. Esso illuminerà, qualunque cosa possa accadere, l’ultimo tratto del mio cammino.
“Né la disfatta né l’esilio attenuarono la nostra fede o indebolirono le nostre speranze. Al contrario hanno ritemprato la nostra volontà e il nostro coraggio, dandoci la certezza della non lontana vittoria. Noi siamo e saremo ciò che fummo. Noi morremo avviluppati in questa stessa, gloriosa bandiera”.
Per approfondire:
- M. Calandri, Una provincia partigiana: idee politiche, deportazioni, eccidi in Con la guerra in casa: la provincia di Cuneo nella Resistenza 1943/1945, a cura di Michele Calandri e Marco Ruzzi, ASS. Primalpe 2016 (ricerca in corso)
- Giovanni (Primo) Rocca, Un esercito di straccioni al servizio della libertà, Ed. “Art pro Arte, 1984(ricerca in corso)
CONSIGLI DI LETTURA (recensioni da librisottobraccio.blog )
- Letture (necessariamente) abbinate
Piero Caleffi, Si fa presto e dire fame, Edizioni del Gallo 1954 (Mondadori, 1967)
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi 1986
- Appunti di lettura. Noam Chomsky, Bagno di sangue, con Edward S. Herman, Il formichiere, Milano 1975
- Leggendo Luigi Preti, Giovinezza, giovinezza. Romanzo, Mondadori 1964, 1966, 1967, 1969, 1973; Mursia 1978
- Appunti di lettura: Augusto Monti, A. XXX E. F. – VIII P. L. (anno trenta dell’era fascista, anno ottavo dopo la liberazione), Parenti Editore, Firenze 1953
- Leggendo La scuola fascista
- Contro l’obsolescenza di alcuni libri (parte seconda)
- Leggendo Antonio Greppi, La coscienza in pace, cinquant’anni di socialismo
- Leggendo Renzo Zorzi, 500 quintali di sale



